Un regalo più grande non potevi farmi, uno zampillo d’acqua fresca dopo giorni e giorni in un deserto che sai bene quanto arido. Sarò all’altezza di questo dono, lo prometto a me stessa.
Etty Hillesum

Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutto il mondo!
Caterina da Siena

lunedì 23 gennaio 2017

SAN DOMENICO VISTO DA SAN TOMMASO D'AQUINO

Come complemento al contributo di Sr Mirella Caterina sul modo in cui Santa Caterina da Siena ha parlato di Domenico, ecco una riflessione di fr Vivian Boland sul modo in cui lo stesso Domenico è visto da San Tommaso d’Aquino. Celebreremo la festa di San Tommaso alla fine di questa settimana (28 gennaio).
 
In tutte le opere di San Tommaso non troviamo riferimenti al nome di San Domenico, fondatore dell’Ordine cui Tommaso aveva deciso di appartenere contro i desideri della propria famiglia. C’è un riferimento a Domenico nella lettera sullo studio che, in passato, venne attribuita a Tommaso ma che nessuno, oggi, considera un lavoro autentico dell'Aquinate. Si dice che ci sia soltanto un riferimento in un'opera autentica, in uno dei suoi Sermoni. Ma ci sono riferimenti impliciti al grande fondatore dei Domenicani e al suo progetto e vale la pena riflettere su alcuni di questi.


Sembra che, nella fase iniziale della vita dell'Ordine, ci siano stati tentativi di promuovere l'idea di Domenico come 'altro Cristo'. Questo non era troppo problematico finché i Francescani e i Domenicani lavoravano insieme per difendere la loro nuova forma di vita. Ma quando i Francescani e i Domenicani caddero in una sorta di competizione tra di loro, in disaccordo sulla povertà per esempio, i Domenicani sembrano essersi tirati indietro dal presentare Domenico come alter Christus. Il motivo, a quanto pare, era che i Francescani avevano un candidato molto migliore per quella posizione nella persona del loro fondatore, Francesco d'Assisi. La 'concorrenza' era troppo potente, i Domenicani vedevano che non c’era realmente possibilità di 'competizione'. Sembra che il poverello, Francesco, avrebbe vinto facilmente in ogni possibile 'gara' per la posizione di alter Christus.


Ma i Domenicani erano intelligenti anche in questo caso e, quindi, ciò che hanno deciso di fare era di non rivendicare Domenico come un altro Cristo, ma di rivendicare Cristo come il primo Domenicano! Domenico era, allora, il suo agente e collaboratore, uno dei tanti, ma ancora il leader in un movimento che ha restituito alla Chiesa la vita apostolica, cioè il modo di vivere intrapreso da Cristo e gli Apostoli. In altre parole, Cristo e i suoi Apostoli hanno vissuto quella forma di vita che noi riconosciamo come quella dei Domenicani.



Il testo classico su questo è quello di Tommaso d'Aquino nella sua Summa theologiae IIIa parte, questione 40. Si ottiene un sacco di attenzione ora nell'uso di 'spiritualità domenicana'. Come già detto, Tommaso non cita per nome Domenico, ma ci sono testi in cui sembra che parli del modo domenicano di vivere senza menzionare questo in modo esplicito. ST III 40 è un esempio calzante. Esso si occupa di questo: come Cristo ha trascorso il suo tempo? Questa questione nella Summa theologiae è intitolata ‘de modo conversationis Christi’, il modo della conversazione di Cristo. Non si riferisce all'accento con cui parlava ma significa 'come ha fatto a passare il suo tempo', 'che cosa ha fatto per tutto il giorno', ‘come era il suo stile di vita fra gli uomini’. È impossibile leggere la risposta di S. Tommaso senza pensare al modo di vivere dei Domenicani, e cioè a san Domenico stesso.


La migliore forma di vita possibile, dice Tommaso, è quella in cui una persona è chiamata a condividere con gli altri, attraverso la predicazione e l'insegnamento, ciò che è stato contemplato. (Altrove aveva descritto la migliore forma di vita come quella che coinvolge la contemplazione e la trasmissione ad altri dei frutti della contemplazione). La missione di Cristo era quella di testimoniare la verità e, per fare questo, era necessaria una vita pubblica di predicazione. Doveva vivere apertamente, fra gli uomini. Il modo di vivere di Gesù era, proprio, 'per dare un esempio ai predicatori' (ut daret exemplum praedicatoribus - III 40,1). Negli anni ’60 del tredicesimo secolo tutto il mondo aveva conosciuto chi fossero i predicatori. E questo è il più vicino al quale si arriva per una menzione esplicita dell'Ordine o di Domenico nella grande Summa.


Gesù ha vissuto una vita equilibrata di preghiera e di predicazione, continua Tommaso. Il Verbo si è incarnato per liberare l'uomo dal peccato e, quindi, è stato necessario che Cristo vivesse tra i peccatori. Per facilitare il suo lavoro tra loro, Cristo non ha vissuto in solitudine, ma ha condiviso le condizioni di vita della popolazione, adattandosi alle loro circostanze (III 40 2). Ha vissuto in mezzo ad essi in povertà perché questo è appropriato al lavoro della predicazione. Ha insegnato agli apostoli a vivere in semplicità e distacco per essere in grado di portare a termine in modo efficace la missione loro affidata. Egli stesso diede loro un esempio di questa vita apostolica col modo con cui ha trascorso i suoi giorni (III 40 3). Soprattutto, è stato obbediente al Padre, e questo è il cuore della vita religiosa per Tommaso (come per Caterina). Il Verbo si è incarnato per aprire agli uomini l'accesso al Padre e così Gesù doveva essere un insegnante, rivelando la via della verità ai suoi ascoltatori.


Anche per il Maestro dell’Ordine Umberto de' Romans, Cristo è il modello del predicatore, di ogni predicatore del Vangelo e non solo dei Frati Predicatori. La missione dei Domenicani non è altro che la missione della Chiesa di predicare il Vangelo. Anselm Moynihan, della provincia d’Irlanda, ha scritto un articolo sulla contemplazione domenicana in cui ha sostenuto che essa non ha alcun ingrediente speciale che la rende 'domenicana' a differenza di qualsiasi altro tipo di contemplazione. Essa è, semplicemente, la contemplazione cristiana. E possiamo dire lo stesso per la missione della predicazione. I Domenicani sono chiamati ad essere predicatori cristiani. In questo, Cristo stesso è il loro modello e il suo modo di vivere è il miglior esempio per loro di come ciò si dovrebbe realizzare.


Uno dei modi in cui Domenico è 'un altro Cristo' è stato sempre rappresentato artisticamente, soprattutto nell'iconografia dell'Ordine.  È la moltiplicazione dei pani. Questo ha un posto di primo piano nell'arte Domenicana. Le mense di molti conventi sono decorate con questa scena per ovvi motivi. Sembra, infatti, che ciò abbia due connessioni con la vita domenicana. La prima ha a che fare con la povertà e questo 'incidente' è stato richiamato al fine di incoraggiare i fratelli a confidare nella cura di Dio e nella cura continua di San Domenico dal cielo, come aveva promesso, dopo la sua morte. L'altro collegamento è con l'Eucaristia la cui devozione crebbe nel momento della fondazione degli Ordini mendicanti. A Tommaso fu chiesto di comporre l'ufficio per la festa del Corpus Domini. I Domenicani, a quanto pare, erano amanti delle rappresentazioni di Cristo come 'uomo del dolore', l'Ecce Homo. Anche questo è stato considerato come eucaristico, poiché mostrava Cristo che offriva il suo corpo anche come cibo per i suoi discepoli.


Un altro 'incidente' che non attira molto l'attenzione, anche se si può pensare che forse dovrebbe farlo, è la dispersione dei fratelli da parte di Domenico. Non c’è un momento esattamente equiparabile nella vita di Gesù, almeno nella misura in cui la sua decisione di inviare i propri discepoli a due e due non sia stata davvero, come sembra, particolarmente controversa. Con Domenico, invece, questa decisione è stata molto controversa e ha provocato opposizioni dentro il piccolo gruppo di predicatori. Dalla frequenza e dal contenuto dei rapporti di questo momento, si comprende come la situazione fosse chiaramente importante e controversa, l'unica in cui davvero Domenico agisce con una sorta di 'certezza divina', e nonostante l'opposizione dei fratelli i quali ribattevano dicendo che fosse troppo presto. ‘Il seme conservato marcisce’, egli rispondeva, ‘mentre invece, se si disperde, c'è qualche speranza che esso porti frutto'.


Il seme è la Parola di Dio. Gesù dice ai suoi discepoli, nello spiegare la parabola del seminatore, che il compito del seminatore è quello di diffonderlo attorno. Questa è la vita Domenicana - la vita di Domenico, la vita dei suoi figli e figlie - essere seminatori di questo seme che è la Parola, nella speranza che, con l’aiuto del suo Spirito, darà i suoi frutti nei cuori di coloro che ascoltano. Questo è il modo con cui i predicatori partecipano alla vita che Cristo ha conquistato all'umanità. È attraverso questo modo di vivere che cominciano a godere della vita eterna, della conoscenza di Dio e di Gesù Cristo che egli ha mandato. È proprio come predicatori, facendo il loro lavoro di predicazione in un modo semplice e povero, aperto e pubblico, muovendosi fra la gente e rispondendo ai loro bisogni, che i Domenicani sono chiamati a servire la Parola che è la Vita. Questa è la direzione indicata da Tommaso d’Aquino quando parla dello stile di vita del Verbo Incarnato, uno stile di vita necessario per la sua missione e anche per dare un esempio ai predicatori. Ed è per questo motivo che Domenico, ristabilì la vita apostolica nella Chiesa. È quanto Tommaso d’Aquino ci insegna sul fondatore, che lui desiderava ardentemente seguire.

martedì 17 gennaio 2017

SAN DOMENICO VISTO DA CATERINA DA SIENA

In questa settimana nella quale l'Ordine dei Predicatori celebra un congresso internazionale sulla sua missione, e si prepara a celebrare con Papa Francesco la Messa di chiusura del Anno Giubilare dell'Ordine, Sr Mirella Caterina Soro OP offre questa riflessione sul modo in cui S. Caterina da Siena parlava della missione di S. Domenico

È singolare come Caterina da Siena inizi a parlare del carisma di Domenico ponendolo al cuore del messaggio evangelico. Il grande comandamento dell'amore, infatti, è, secondo Caterina, al centro del dono e della missione dei domenicani nella Chiesa e nel mondo. Nel Dialogo (ed esattamente nel trattato dell’obbedienza, Dialogo CLIV-CLXV), Caterina dice che Domenico ebbe il desiderio che i suoi figli avessero come fine primario “l’onore di Dio e la salute dell’anime” (CLVIII), cioè quel duplice comandamento dell'amore di Dio e del prossimo che si esplicita più chiaramente, come noi sappiamo, nella parabola del buon samaritano. Ma c’è una modalità particolare con cui il domenicano è chiamato a curare le ferite dell’umanità lungo le strade del tempo in cui vive. Certo, Domenico, dice Caterina, diede somma importanza alla povertà, fino al punto di affermare che sarebbero stati “maledetti” quei domenicani che non avessero vissuto la vera e volontaria povertà. Ma, a differenza di Francesco d'Assisi, non è questo il carisma, la missione specifica, il dono dell’Ordine.

IL LUME DELLA SCIENZA

E ci sembra veramente, estremamente lungimirante e moderno quel “lume” con cui Caterina identifica il carattere, la missione, la chiamata che Domenico ha ricevuto a servizio degli uomini di ogni tempo. E oggi più che mai, forse, siamo in grado di apprezzarne la portata, la grandezza, la profezia, la profondità, l’attualità. Si tratta del lume della scienza: è questo il carisma specifico di Domenico. Questa è la missione dell’Ordine domenicano che Caterina definisce anche come “ufficio del Verbo” (CLVIII, 475): l’ufficio della Parola, il dono e la missione di portare a tutti questa Parola, come fece Cristo, perché tutti abbiano la vita. È il dono di valorizzare la ragione e di farne una scala, un ponte nella ricerca della verità. Per Caterina questo “ponte” che unisce l’umano e il divino è Cristo. Egli è la luce che illumina la ragione umana e la rende più acuta nella ricerca del senso della vita, del fine dell’uomo.

Cristo è il Verbo, la luce, il lume, la sapienza eterna del Padre. Domenico riceve dallo Spirito la missione e il carisma di “levare le tenebre e donare la luce” (CLVIII,478), cioè di contemplare e trasmettere con la predicazione la sapienza eterna, il Verbo del Padre, traducendo questa Sapienza eterna in linguaggio umano, proprio attraverso il dono specifico della scienza. La scienza è un lume per il mondo. E Domenico è l’uomo della scienza. Il suo carisma è quello di cercare Dio-Verità, contemplarlo e donarlo agli altri attraverso la valorizzazione di tutto ciò che è umano.

LA MEDIAZIONE DELLA DONNA 

Caterina dice che Domenico è “uno lume che io (=Dio Padre) porsi al mondo col mezzo di Maria” (CLVIII, 478-479). È straordinario come Caterina descriva il carisma dell'Ordine quale dono al mondo e alla Chiesa, ma col mezzo di Maria. Dietro questa frase piccola e apparentemente di lieve nota, è nascosto il ruolo centrale che Domenico dà alla donna in un tempo in cui la parte femminile dell’umanità era confinata ai margini di ogni vicenda umana, culturale, politica, sociale. Ciò sta a significare non solo una profonda devozione mariana, da sempre attestata nell'Ordine, e un riconoscimento del carisma quale dono specifico di Maria, ma anche che:
  • La predicazione domenicana si compie passando per il tramite della donna
  • La predicazione (cui i frati, primariamente, si dedicano) si attua solo col mezzo della contemplazione (nell’Ordine questo compito è affidato in maniera speciale alla donna).
  • Domenico e il suo carisma giungono all’Ordine per mezzo di Caterina (che ne ha fatto esperienza e lo ha comunicato in pienezza).
L'uomo e la donna sono sempre strettamente uniti, con doni complementari e totale uguaglianza, nel progetto eterno di Dio, nella storia della salvezza, e lo sono anche, nell’Ordine, nella ricerca di Dio e nella predicazione (nella storia dell’Ordine abbiamo molti esempi di questa complementarietà e uguaglianza di uomo e donna).

Ma qual è la mensa cui i figli di Domenico si cibano, per alimentare il lume della scienza? È la mensa della croce. Ciò significa che lo studio, la contemplazione, la predicazione domenicana sono fecondi soltanto se, nell'amare Dio e il prossimo, si accoglie quel cammino che fu lo stesso cammino di Gesù: un cammino di amore che implica necessariamente anche il disprezzo, la spoliazione, le fatiche, le difficoltà. Tutte queste, però, sono solo conseguenza logica dell’amore e non cercate o volute in se stesse.

Per essere leggeri e liberi, Domenico volle che i suoi figli imparassero la fiducia nella provvidenza senza avere la preoccupazione delle cose temporali, che poteva distrarli da questo fine fondamentale dell’Ordine di cercare e donare la verità. Forse che egli mancava di fede, si chiede Caterina? E risponde: in nessun modo! Domenico, infatti, aveva ferma fiducia nella provvidenza di Dio.

Parlando dei tre voti, Caterina pone accento particolare sull'obbedienza perché vi sono alcuni che “la luce della scienza pervertono in tenebre con le tenebre della superbia” (CLVIII, 506-508). Il domenicano, chiamato a usare la ragione per indagare le realtà più profonde della vita e della grazia, ha bisogno di un occhio interiore profondamente limpido. Ma questo non può accadere se la superbia offusca il suo sguardo: in questo caso, infatti, egli non sarà più in grado di cercare la verità, che sarà profondamente distorta dalla ricerca egoistica di sé. Ecco perché l’obbedienza è l’unico voto esplicitamente emesso nell'Ordine e la vita comune la fucina in cui il domenicano sperimenta ogni giorno la liberazione dalle pesantezze che gli impediscono di avere lucidità di mente e purezza di intenzione.

LA FIDUCIA NEI LAICI

La grandezza e profezia di Domenico sta anche nell'importanza che, già nel ‘200, egli diede ai laici. Nel suo Ordine, infatti, dice Caterina, c’è spazio per tutti, e per tutti c’è la possibilità della perfezione dell’amore. E tutti “stanno bene in questa navicella” (CLVIII, 522-523) dell’Ordine. È una casa, un luogo dove si sceglie di stare e dove “si sta bene”! Ciò è realmente liberante se si pensa che, nel corso dei secoli, talvolta la vita dello spirito è stata vista e considerata come un qualcosa di imposto, pesante, soggetto a rigide regole che non liberavano le persone. Domenico volle che il suo Ordine fosse una casa dove la gente stesse bene e trovasse il proprio posto, ma sempre insieme e tra gli altri. La particolarità di questo carisma e dono della scienza è che, rendendoci riflessi di Colui che è splendore eterno, Luce intramontabile, ci dona la sua stessa luce, cioè la sua conoscenza del mondo. Cosa significa questo? Significa che lo sguardo di Cristo sull'umanità e sulla storia, che è lo stesso sguardo di Dio, diventa in qualche modo, man mano che diventiamo Suoi amici, anche il nostro sguardo; significa che iniziamo a vedere le persone e gli avvenimenti non più solo dal nostro ristretto e limitato punto di vista, ma guardiamo la gente, le scelte degli altri, i doni delle persone così come li vede Dio. E, cosa incredibilmente bella e audace, accogliamo e amiamo anche  i limiti degli altri, perché questo è il Suo sguardo su ogni persona: Egli ama ognuno e lo accoglie così come è. Proprio qui, in questo cammino di conoscenza o via della luce (cfr. XCVIII-CVIII), è l’origine della profonda compassione di Domenico.

Il carisma di Domenico, allora, che è specificatamente il carisma della scienza, apparentemente così alto e sublime, è profondamente umano, perché accoglie, abbraccia tutto ciò che è limitato, piccolo, ferito, così come ha fatto Cristo, la Parola del Padre fatta carne. E la carne è amata, custodita, protetta, predicata da ogni domenicano, perché la carne è stata assunta, guarita e redenta da Cristo, ed è il tramite della nostra conoscenza di Lui, dei nostri rapporti con gli altri e con Dio. Chiamati a cercare Colui che si è fatto uno di noi, i domenicani vedono le debolezze umane con lo sguardo tenero e misericordioso di Dio. Perciò, Caterina descrive l’Ordine come una navicella “larga, tutta gioconda e tutta odorifera” (CLVIII, 526). È un luogo dove, davvero, c’è spazio per tutti.

LIBERTÀ NELL'OBBEDIENZA, GIOIA NELL'AMORE

C’è un racconto del vangelo che Caterina usa (cfr. CLIX) per esplicitare il dono specifico della vita religiosa all'interno dell’Ordine(dove ci sono laici e consacrati). Pietro domanda a Gesù: “Maestro, noi abbiamo lasciato ogni cosa per tuo amore e abbiamo seguito te: cosa ci darai?”. E Gesù, che Caterina chiama “Verità”, risponde: “Vi darò il cento per uno e la vita eterna” (cfr. Mt 19,27-30; Mc 10,28-30; Lc 18,28-30). E Caterina spiega. Cosa è questo “cento”? Si tratta forse di ricchezze? No! C’è qualcosa che l’uomo ha ed è più preziosa di ogni cosa: la propria volontà. Quando questa volontà, che non è altro che la libertà, viene indirizzata a Dio solo, questa volontà è l’uno che l’uomo dona a Dio. L’uomo sceglie liberamente di mettere Dio al primo posto nella sua vita, e Dio cosa gli dà in cambio? Il “cento per uno”: ciò cui non puoi aggiungere altro, perché è in sé una pienezza. E questa pienezza noi tutti sappiamo cosa è, perché sentiamo che il nostro cuore umano ci porta ad averne sempre sete: è l’amore. A chi si fida di lui e lo sceglie liberamente; a chi sceglie di porre Dio al centro della propria vita al posto del proprio io; a chi sceglie l’obbedienza domenicana, Dio promette la pienezza dell’amore. È la vita eterna che Dio promette nel racconto del vangelo, che non è altro che la carità. La carità, infatti, “entra come donna, come regina in cielo”. Ma questo dono promesso a chi fa voto di obbedienza è anche per coloro che scelgono di vivere tale virtù nel proprio stato laicale, lasciando che sia Dio e regnare nelle loro vite e condurli per le sue strade. I due comandamenti dell’amore, al cuore del carisma, sono dunque realizzati pienamente dal domenicano quando egli, promettendo e vivendo l’obbedienza, riceve in dono da Cristo la Sua capacità di amare.

Frutto di questo scambio tra Dio e l’uomo è la gioia(cfr. CLX), il cuore largo e libero e non doppio e piccolo. Il vero amore, infatti, è aperto a tutti, perciò chi lo possiede è pienamente felice. Per questo, il domenicano non può che essere sempre pieno di gioia. Una gioia che non è superficiale allegria, e che alimenta la sua vita interiore anche tra le prove e le fatiche. Si tratta, infatti, di una gioia profonda, di una sorgente di vita che continuamente scorre nel suo cuore e alimenta la sua persona. E che è anche, senza dubbio, la sua prima, vera, feconda predicazione. Questa gioia vediamo nella vita di S.Domenico e imploriamo per tutti i suoi figli e figlie.

giovedì 12 gennaio 2017

CUORI DI CARNE AL POSTO DI CUORI DI PIETRA

Ia SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

GIOVEDI (ANNO I) 


Il cuore indurito è una specie di lebbra interiore, almeno nelle sue conseguenze. L'indurimento del cuore porta all'isolamento e alla confusione nelle relazioni. E ci chiude in noi stessi. La persona il cui cuore è indurito vive separata dall'interazione umana, anche quando è circondata da altre persone. 

C'è molto sul cuore nelle Scritture. Ci sono avvertimenti, come oggi, circa l'indurimento del cuore. Geremia chiede una circoncisione del cuore. Ezechiele parla della necessità che cuori di pietra siano sostituiti con cuori di carne.

Ma c’è anche un incoraggiamento nelle letture bibliche di oggi. Ogni 'oggi', finché l’oggi dura, è un'opportunità. La Chiesa inizia la sua preghiera, ogni giorno, con il salmo citato nella prima lettura dalla Lettera agli Ebrei. Come un giardiniere che si occupa del suo giardino ogni giorno, non possiamo vedere i frutti del nostro lavoro (il lavoro di Dio) immediatamente. Non ci rendiamo conto di ciò che viene tenuto a bada e sotto controllo da questa preghiera quotidiana. Mentre ci sforziamo di mantenere i nostri cuori aperti, siamo perlomeno disposti verso qualcosa di nuovo e di fecondo. Se non facciamo ciò ogni giorno, poi mancheremo il bersaglio nel giorno in cui questo qualcosa si realizzerà.

Un incoraggiamento ancora più profondo si trova nel fatto che Gesù si identifica con il lebbroso, almeno nel prendere su di sé le conseguenze di essere lebbroso. La festa di Domenica scorsa, del Battesimo del Signore, ha celebrato la sua solidarietà con i peccatori nell'atto di essere battezzato. Solidarietà che si può vedere ancora più chiaramente nella sua agonia e desolazione. Anche se egli è l’amorevole bontà di Dio fatta carne, ha assaggiato l'amarezza della durezza di cuore. Ha assaggiato tutto ciò ancora più profondamente, proprio perché il suo cuore è tenero del tenero amore di Dio. Ha sperimentato l'oscurità dell’abbandono di Dio pur rimanendo senza peccato. Ancora, ha sperimentato tutto ciò più acutamente per il fatto che è il Figlio eterno del Padre della Luce. 

Abbiamo un Signore che ha inviato il suo Spirito nei nostri cuori, rimuovendo i cuori di pietra, dandoci in cambio dei cuori di carne. Oggi - perché no? - Egli può cambiarci, rendendoci persone dal cuore aperto e compassionevole, come prima d'ora non eravamo.

martedì 3 gennaio 2017

L’AMICIZIA PIÙ GRANDE


Nella sua Summa contra gentiles, un altro grande lavoro sistematico di san Tommaso d’Aquino, troviamo delle pagine bellissime sulla monogamia (SCG III, 132-134). L’argomento è se sia accettabile per un uomo sposarsi con più di una donna. Le sue riflessioni guidano Tommaso a sviluppare alcuni argomenti contro questa possibilità, argomenti fondati sulla natura dell’amicizia. Poiché, scrive, il matrimonio è amicitia maxima, cioè la più grande amicizia, deve essere caratterizzato dalle qualità essenziali di qualunque amicizia, sviluppate al massimo. E fra queste qualità troviamo quella dell’uguaglianza. Senza uguaglianza non c’è amicizia vera. Se il matrimonio è amicizia, magari l’amicizia più grande, significa che domanda l’uguaglianza più stretta. Nella poligamia questa non è possibile (neanche, ovviamente, nella poliandria, matrimonio di una donna con tanti uomini). Soltanto nella monogamia si trova l’uguaglianza necessaria per un’amicizia vera, e per questo la monogamia è la forma accettabile del matrimonio.

Parte essenziale di qualunque amicizia è anche la libertà. È chiaro che dove la forza, la violenza, la costrizione entrano nelle relazioni, manca la possibilità di un’amicizia nel senso vero della parola. Se non è stabilita liberamente fra due persone, non potrebbe essere realmente amicizia. Fa parte della gioia del amore, come di altri tipi di amicizia, che esso sia gratuito, non forzato, ricevuto come dono dall’amico o dall’amica. Continuando l’analogia, se un matrimonio è forzato, violento, imposto, perde una parte essenziale del suo essere e non arriva al criterio di un vero matrimonio, che è amicizia massima.

Per Tommaso d’Aquino l’amicizia è importantissima. Questo si vede dal fatto che, quando torna a considerare la virtù cristiana più alta, cioè la carità, la considera in termini di amicizia. In quest’altra parte delle sue opere troviamo delle riflessioni bellissime sull’amicizia (cf Summa theologiae II.II 23-45). Insieme con l’uguaglianza e la libertà, parla lì anche della comunicazione e della reciprocità, che sono due altre caratteristiche essenziali dell’amore e dell’amicizia. “Comunicare” non solo significa ascoltare e parlare con l’altra persona, ma indica anche che ci deve essere qualche bontà condivisa che dia fondamento al rapporto. Gli amici devono condividere un interesse comune, devono partecipare a una missione comune, devono cercare insieme qualche cosa che sia apprezzata da tutti e due. Che, a un livello più semplice, potrebbe essere il football o un interesse per la letteratura o la musica. Ci sono tante amicizie basate su interessi di questo tipo. Amicizie più significative sono quelle dove gli amici partecipano a una vita politica condivisa, a una vita comune religiosa, a un progetto accademico o pedagogico, ecc. Per Aristotele, l’amicizia più forte, umanamente parlando, si trova fra persone che cercano insieme la vita delle virtù.

Da questa riflessione deriva anche l’importanza della reciprocità nell’amicizia. Si vede subito che fa parte dell’uguaglianza di un rapporto, che deve essere vicendevole. Senza reciprocità o uguaglianza ci sono altri tipi di rapporti umani, importantissimi nella vita, senza dubbio, e nei quali troviamo forse comunicazione e libertà ma che, senza queste qualità di reciprocità e uguaglianza, non arrivano alla definizione di amicizie vere.

Nel caso dei rapporti uomo-donna, se vogliamo parlare di amicizia, sono sempre necessarie, ovviamente, tutte queste qualità. Per quanto concerne il matrimonio, seguendo Tommaso d’Aquino, è questione di “amicizia più grande”. Insieme con l’uguaglianza e la libertà, con la reciprocità e la comunicazione, troviamo qui anche la complementarietà. Forse questo è un aspetto al quale San Tommaso non dà l’attenzione che noi possiamo dargli con la nostra comprensione sviluppata della psicologia e dell’antropologia. È vero che Tommaso, sulla scia, per esempio, di San Paolo, e tutti i Padri della chiesa cristiana, hanno visto una complementarietà gerarchica fra uomo e donna, cosa che riesce più difficile a comprendersi, per noi, oggi. Ma il punto, per loro, è che l’amore e l’amicizia domandano anche la differenza, che sono legami che uniscono persone che sono distinte, che la comunione stabilita fra persone ha un senso più profondo perché è l’unita nella differenza, una comunione nella diversità. 

Se il matrimonio è l’amicizia più grande fra persone umane, la carità è l’amore più grande. Nel suo primo significato, la carità unisce persone fra le quali c’è la differenza più radicale che ci possa essere, perché è la differenza fra il Creatore di tutto e le creature che ricevono tutto da Lui. Come mai potrebbe esserci amicizia fra esseri così distanti ontologicamente? Dove si troverebbero l’uguaglianza o la reciprocità, qualità che abbiamo visto così essenziali per l’amicizia vera? Per i filosofi questa rimaneva un’impossibilità, ma per i credenti in Cristo si tratta della buona novella della Sua presenza fra di noi: Cristo nostro fratello e anche figlio del Padre che stabilisce per noi questa possibilità di amicizia con Dio. Questo è il dono dello Spirito Santo, questa è la realizzazione di ciò che Gesù diceva ai suoi discepoli, ‘non vi chiamo più servi ma amici perché a voi ho rivelato i misteri del regno’ (Giovanni 15,15).
 Dio in se stesso è amore – come diceva il monaco inglese del medioevo, Aelredo di Rievaulx, ‘Dio è amicizia’ – e la missione del Figlio mandato dal Padre è aprire il mondo al dono dello Spirito. Questo significa che i discepoli e tutti coloro cui sono stati mandati i discepoli, cioè tutto il mondo, sono chiamati a vivere in questa amicizia e amore che è Dio stesso. Lo Spirito è il dono che rende possibile questa comunione soprannaturale, che fa di questa comunione un’amicizia vera: siamo figli adottivi, fratelli e sorelle di Gesù, figli nel Figlio.

In una delle sue lettere, Santa Caterina da Siena dà un sommario bellissimo di questo insegnamento: ‘Adunque amatevi, amatevi, insieme; perocchè a questo sarete conosciute se sete spose e figliuole di Cristo; o no: e non si conosce ad altro, se non nell’amore fondato in Dio, e a quello ch’egli ha al prossimo suo’ (Lettera 217). Il matrimonio è l’esplicitazione massima di questo amore, il simbolo più potente nella Bibbia del rapporto fra Dio-sposo e il suo popolo-sposa. Nella Chiesa è un sacramento, da un certo punto di vista il sacramento fondamentale perché tutti gli altri, inclusa la stessa Eucaristia, servono questo rapporto di amicizia nuziale fra Dio e il suo popolo. 

Ritorneremo, ogni tanto, ai temi qui accennati, sempre in compagnia di San Tommaso e di Santa Caterina, facendo applicazioni appropriate ad altre vocazioni e all’esperienza dell’amicizia in altri stati di vita.
 

VB & MS