Un regalo più grande non potevi farmi, uno zampillo d’acqua fresca dopo giorni e giorni in un deserto che sai bene quanto arido. Sarò all’altezza di questo dono, lo prometto a me stessa.
Etty Hillesum

Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutto il mondo!
Caterina da Siena

domenica 24 dicembre 2017

LA LIBERTÀ DI UNA DURATURA RELAZIONE D'AMORE

AVVENTO
4a settimana, Domenica (Anno B) 


L'Annunciazione è il punto di svolta nella storia umana perché è il momento in cui il Verbo si è fatto carne nel seno di Maria. È allo stesso tempo il compimento della gioia dell'Antico Testamento e l'inizio della grazia del Nuovo Testamento. Il saluto dell'angelo a Maria, 'Rallegrati, prescelta', 'ti saluto, piena di grazia', include sia gioia, chara che grazia, charis. Nello stesso momento, le grandi gioie di cui si parla nelle Scritture ebraiche si realizzano mentre la nuova grazia della realtà cristiana diventa realtà.

Quali erano le grandi gioie di cui parlavano le scritture ebraiche? Una era la gioia di una donna sterile che scopriva che avrebbe avuto un figlio. Tale era Sara, l'anziana moglie di Abramo, che partorì Isacco, il bambino che assicurò l'adempimento delle promesse di Dio. Tali erano la madre di Sansone e Anna la madre di Samuele ed Elisabetta la madre di Giovanni il Battista.

I profeti di Israele hanno usato questa immagine del luogo arido che prende vita, la terra asciutta e sterile in cui appare l'acqua e la vita prospera (Isaia 41). Dio salva trasformando i luoghi aridi in terreno fertile. Maria dice all'angelo: "Come avverrà questo, poichè sono vergine?" Ecco un diverso tipo di infertilità, una concezione ancora più straordinaria di quella di Samuele o di Giovanni Battista. Qui, senza alcuna violenza o intrusione nella sua creazione, il potere creativo di Dio porta in essere la natura umana che l'eterno Figlio di Dio ha assunto.

Un altro grande momento di gioia è la gioia di stare alla presenza di Dio. L'esempio più eclatante di questo è la danza del Re David mentre accoglieva l'Arca dell'Alleanza a Gerusalemme. Sua moglie, osservando da una finestra, non era divertita al pensiero che suo marito si fosse tolto i vestiti per disonorarsi di fronte ai domestici. Ciò nonostante, la gioia di Davide era sfrenata, una gioia traboccante perché Dio era in mezzo al suo popolo (2 Samuele 6).

I profeti parlano anche di questo. Sofonia, per esempio, dice: "Rallegrati per il Signore che è in mezzo a te, il tuo Dio, il Santo di Israele". Si spinge fino al punto di parlare di Dio che balla di gioia alla presenza del suo popolo, l'immagine speculare di Davide alla presenza dell'Arca (Sofonia 3). L'angelo Gabriele dice a Maria 'esulta perché il Signore è in mezzo a te'. Dio è con noi in un modo nuovo e straordinario: come non essere gioiosi?

Una terza grande esperienza di gioia nella Bibbia è la liberazione degli schiavi. Il momento decisivo nella storia della relazione tra gli ebrei e il loro Dio è la traversata del Mar Rosso. Il Signore li ha portati fuori dalla terra d'Egitto e li ha condotti dal luogo in cui erano stati schiavi in ??un luogo di libertà, una terra dove scorreva latte e miele.

Anche questa gioia è contenuta nell'Annunciazione, poiché il bambino che nascerà da Maria sarà chiamato Gesù. Questo è il nome di Giosuè, che alla fine condusse il popolo attraverso il Giordano nella Terra Promessa. Il bambino nato da Maria è il nuovo Giosuè, che salva il suo popolo dai suoi peccati e li conduce nel Regno di Dio.

Gioia che la sterile sia ora feconda. Gioia che il Signore sia in mezzo a noi. Gioia che la schiavitù sia finita e la libertà stabilita. A ciò si aggiunge un ultimo momento di grande gioia, quello del rinnovo dell'alleanza. Il popolo peccò ripetutamente, ma altrettanto spesso Dio offrì loro un patto e insegnò loro a sperare nella salvezza. La nuova alleanza il cui primo atto è l'annuncio a Maria è quella predetta da Geremia, un'alleanza eterna che suggella l'amore eterno con cui Dio ci ama (Geremia 36 e Isaia 54).

La grazia annunciata qui è la vita alla presenza di Dio, la libertà in una duratura relazione d'amore con Dio. È il momento in cui inizia la nuova creazione. Ed ecco un'ultima, gioiosa meraviglia. Nella prima creazione l'unico a parlare era Dio. "Sia la luce", disse, "e la luce fu" (Genesi 1). Ma nella nuova creazione appare una nuova grazia in quanto Dio permette alle sue creature umane di partecipare all'opera che sta facendo per loro. 'Avvenga di me quello che hai detto', dice Maria. Questo è il più notevole mistero di grazia, che Dio che viene per salvarci ci dà la vittoria. È uno di noi - il Figlio di Maria, nostro fratello, Gesù Cristo - che ha raggiunto la salvezza per noi. Lui è veramente la nostra gioia e la nostra grazia.

L'Annunciazione è un momento in cui apprendiamo molto sulle transizioni, su come possiamo mettere in relazione un futuro inaspettato e sorprendente con un passato apprezzato e amato. In questa transizione straordinaria, Maria non è una bambina ingenua: talora le è stato reso un cattivo servizio ritraendola in quel modo. È "piena di grazia", ??e quindi è piena di saggezza e amore. L'angelo le dice che Dio si è ricordato di lei: "Hai trovato grazia presso Dio", le dice, Dio non ti ha dimenticato e tu non sei caduta al di fuori delle cure di Dio.


Nella cattedrale di Ratisbona c'è una meravigliosa rappresentazione dell' Annunciazione. Da un lato del corridoio si trova Gabriele che sta ridendo mentre guarda, dall'altra parte, Maria. Si vedono i suoi denti - strano che un angelo debba avere i denti! - e in origine teneva in mano una statua del Bambino Divino, proteso verso Maria, come per dire "guarda cosa ho per te"! Molte persone visitano la Cattedrale di Ratisbona solo per vedere questo angelo che ride.

Maria, dall'altra parte della navata, è più seria, con una mano alzata come per dire "aspetta un minuto", mentre nell'altra mano c'è un libro. Pensiamo a quanto spesso Maria è rappresentata nell'Annunciazione mentre tiene un libro, o legge un libro o ha un libro da qualche parte nelle vicinanze. Possiamo capire l'atteggiamento di Maria in questa statua, come se dicesse: 'Aiutami a comprendere come ciò che mi hai appena annunciato si adatti a ciò che già so riguardo i rapporti di Dio con noi e le sue promesse per noi'. Il libro deve essere considerato come la Scrittura, la sua conoscenza e la comprensione della Parola di Dio finora. Ci viene detto che "dialoga" con se stessa mentre dialoga con l'angelo, chiedendogli di aiutarla a capire la transizione: come questa nuova cosa, questo futuro inaspettato, concorda con un passato importante? All'inizio non sembra il compimento di quel passato, ma lei crede che lo sia ("beata colei che ha creduto all'adempimento delle promesse del Signore").

E così nasce una gioia nuova e inimmaginabile, una presenza di Dio con il suo popolo che non  si sarebbe mai potuto prevedere e un'intimità tra Dio e il suo popolo che noi ancora facciamo fatica a comprendere. I "principi di verifica" di Maria, se possiamo esprimerci in questo modo, sono saggezza e amore. Deve essere così perché è piena di grazia. È la saggezza che chiamiamo fede, insieme al suo amore per il suo Signore che la porta attraverso questa strana transizione, che la spinge ad accettare la nuova e sorprendente cosa che Dio ora vuole fare per il Suo popolo. Crediamo che Dio voglia sempre fare cose nuove e sorprendenti per il suo popolo, perché questo è ciò che significa la grazia e questa è la natura di Dio. Impariamo da Maria come ricevere la grazia, come permettere alla Parola di nascere in noi e nel nostro mondo. Ciò avviene sempre e solo per fede e amore. E la nostra gioia è completa.

venerdì 22 dicembre 2017

SEI BELLA COME LA PRIMA VOLTA CHE TI HO INCONTRATA

AVVENTO - 3a Settimana, Venerdì 22 Dicembre 



Ho sentito parlare di un uomo che visitava sua moglie tutti i giorni nella casa di cura dove lei ha trascorso i suoi ultimi anni. Soffriva di demenza e aveva bisogno di cure costanti. Suo figlio gli domandò se questo comportava per lui delle difficoltà. "Non è affatto difficile", disse suo padre, "Anzi! Perché è bella oggi come lo era quando l'ho incontrata per la prima volta".

Il Signore, il Dio di Israele, sta dicendo questo ad Israele e alla Chiesa, nelle letture che ascoltiamo in questi giorni e negli eventi cui si riferiscono. Dio vede "noi" così: belli e fecondi, anche quando noi stessi temiamo il contrario. Questa lunga storia d'amore tra Dio e il Suo popolo significa che noi, quegli amanti da nulla che siamo, siamo considerati belli, siamo considerati nella nostra limitatezza e povertà e bisogno, siamo ancora attesi e non stiamo solo aspettando.

Raramente pensiamo a questo nell'Avvento, che anche Dio sta aspettando noi. Nella sua lettera enciclica sulla virtù teologale della speranza, papa Benedetto cita santa Giuseppina Bakhita, una schiava sudanese che divenne suora in un convento italiano, una donna di straordinaria saggezza spirituale. "Sono definitivamente amata", dice, "e qualsiasi cosa mi succeda, sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona". Che straordinaria, semplice e profonda spiegazione della "grazia": sono atteso da questo Amore, quindi la mia vita è buona.
Il Magnificat contiene lo stesso insegnamento: tutte le generazioni mi chiameranno beata (graziata), perché Colui che è potente ha fatto grandi cose per me (per Maria, Elisabetta, Israele, la Chiesa, per te, per me). Non c'è bisogno di andare a vedere a chi si riferisca quando parla dei poveri e dei ricchi, degli affamati e dei potenti, degli umili e degli orgogliosi. Siamo noi, tutti noi, ognuno di noi e ogni aspetto di noi: ovunque la nostra libertà risponda alla bontà e all'amore siamo poveri, affamati e umili, e così diventiamo ricchi; ovunque non riesca a farlo, siamo ricchi, potenti e orgogliosi, e così diventiamo poveri.
Di qui la nostra gioia in questi giorni e in tutti i giorni della nostra vita; non perché amiamo Dio e lo aspettiamo, ma perché Dio ci ama e ci attende. "Sono atteso da questo Amore. E così la mia vita è buona. "

domenica 17 dicembre 2017

IL PIU GRANDE DEGLI ESSERI UMANI


AVVENTO, 3a settimana, Domenica (Anno B)


Il ministero pubblico di Gesù inizia "dal battesimo di Giovanni" (At 1,22), la cui apparizione nel deserto della Giudea, predicando e battezzando, segna l'adempimento di una serie di profezie bibliche.

Giovanni il Battista è "una voce che grida nel deserto". Questa era una frase usata in Isaia 40 in riferimento a colui che annuncia il ritorno del popolo dall'esilio di Babilonia. Quel ritorno significava un nuovo inizio, la fine dell'alienazione tra Dio e il suo popolo e l'instaurazione di una nuova alleanza tra di loro. La fine dell'esilio fu di grande importanza per il popolo come segno concreto della continua assistenza di Dio.

Per i profeti, i quaranta anni trascorsi da Israele a vagare nel deserto furono la luna di miele della sua relazione con Dio, un periodo idilliaco di amore giovane, innocente e leale. Nel ritornare dall'esilio in Babilonia, dice Isaia, il deserto attraverso il quale il popolo passa esulta e produce fiori, l'acqua scorre nelle terre aride, e la landa gioisce e fiorisce.

Quindi il rinnovamento e i nuovi inizi nella relazione tra Dio e il suo popolo sono associati alla natura selvaggia. La natura selvaggia è il luogo in cui cercare segni che cose nuove potrebbero essere sul punto di accadere. Il primo segno che l'esilio in Babilonia stava finendo fu la voce di Isaia che piangeva nel deserto. Il primo segno che Gesù, il Messia, stava per iniziare la sua missione fu la voce di Giovanni che piangeva nel deserto e proclamava "pentitevi, perché il regno dei cieli è vicino".

Un secondo filone di aspettativa dell'Antico Testamento si concentra sul profeta Elia ed è riferito dai cristiani anche a Giovanni il Battista. La tradizione biblica è che Elia non è morto ma è stato trasportato in cielo su un carro infuocato. In alcuni ambienti ebraici c'era la convinzione che prima della visita finale di Dio, Elia sarebbe tornato per avvertire la gente che questo "giorno grande e terribile" stava per sorgere.

Questa tradizione profetica dà voce a un appassionato desiderio di giustizia, alla speranza che Dio venga come giudice per rimediare a tutto ciò che è stato distorto dall'ingiustizia, dalla crudeltà, dall'oppressione e dalla malvagità. Sappiamo quanto sia difficile per gli esseri umani vivere insieme nella giustizia. Di chi è la giustizia? Di chi è la verità? Esiste un risarcimento per tutte le crudeltà e le violenze che subiscono le persone? A chi possono rivolgersi i poveri di questa terra per ottenere aiuto, verità e giustizia se non possono rivolgersi a Dio?

Giovanni il Battista è anche l'erede di questa tradizione. Egli avverte che è giunto il momento per le persone di mettere ordine nelle loro vite. Il giudizio è in corso.

Gesù inizia la sua predicazione con lo stesso messaggio, "convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino". Ma, sulle labbra di Gesù, queste parole hanno maggiore profondità e potenza. Giovanni indica colui che deve venire, ma Gesù è costui. Giovanni avverte la gente dell'imminenza del regno, ma Gesù è la sua presenza. Giovanni battezza con l'acqua per il pentimento, ma Gesù battezza in Spirito Santo e fuoco per una nuova vita, una nuova creazione. Ciò che è promesso nelle parole del Battista si realizza nelle parole, nelle azioni, nell'insegnamento, nella passione, morte e risurrezione di Gesù.

In Gesù le profezie si adempiono, come sempre, in modi inaspettati. Chi avrebbe mai pensato che Dio si sarebbe impegnato con l'ingiustizia, l'oppressione e la violenza permettendo a suo Figlio di diventare l'innocente vittima di ingiustizia, oppressione e violenza? Chi avrebbe mai pensato che lo sbocciare di una nuova vita nel deserto dei cuori umani sarebbe stato più radicale e più impegnativo del piantare la vegetazione in un deserto? Chi avrebbe mai pensato che l'amore potesse essere più esigente della giustizia? Chi avrebbe mai pensato che il nostro giudice sarebbe stato prima di tutto il nostro salvatore?

Eppure tutto ciò è vero nel regno stabilito da Gesù Cristo. Giovanni il Battista si trova sulla soglia di quel regno. È il suo araldo e il primo segno del suo imminente arrivo. Secondo Gesù, egli non è solo il più grande dei profeti, ma il più grande degli esseri umani. Eppure l'ultimo di quelli che credono in Gesù ha accesso a qualcosa di più grande. La nostra presa su questo qualcosa può essere debole, ma anche il minimo barlume di fede ci dà l'accesso a una meravigliosa realtà: la presenza di Dio in mezzo a noi in Gesù Cristo, nostro salvatore e nostro giudice.

domenica 10 dicembre 2017

LA VERA, IRRESISTIBILE BELLEZZA

AVVENTO - 2° Settimana, Domenica (Anno B)



Può essere difficile spiegare, soprattutto a chi è scettico, perché la fede cristiana continui a "prenderci". Una delle ragioni per cui è difficile parlarne è perché è una questione di cuore umano, una questione su dove siamo attratti per donare il nostro cuore. C'è una naturale modestia nel rivelare i nostri cuori a troppe persone e certamente non ci piace farlo nei luoghi pubblici. C'è qualcosa di molto triste in quei programmi televisivi in ​​cui le persone sentono che devono parlare dell'intimità della loro vita a un pubblico enorme. Esiste un'appropriata e virtuosa modestia su ogni "affare di cuore". Nella prima lettura di oggi Dio ordina al profeta Isaia "di parlare al cuore di Gerusalemme" (Isaia 40,2). Un'ulteriore complicazione nel parlare della nostra comprensione della chiamata a seguire Cristo sta nel fatto che ciò ha a che fare non solo con il cuore umano, ma anche con quel cuore nella sua relazione con Dio. Dio stesso è sempre, e sempre più, misterioso per noi. Non dovrebbe sorprendere, quindi, se troviamo difficile essere eloquenti sulle Sue vie con noi, sul coinvolgimento con Lui nel quale Dio ci ha guidati, su ciò che Dio ha fatto con i nostri cuori.

Alcuni dei primi insegnanti cristiani, poiché la loro lingua era greca, notarono una connessione tra il termine "call" (=chiamare), kaleo e il termine "beauty" (=bellezza), kallos. Anche se non si presenta in inglese, è una connessione utile nel cercare di capire il senso di essere chiamati all'esperienza di essere credenti. È come essere attirati o attratti da qualcuno o qualcosa. Sappiamo che l'attrattiva di ciò che è bello è innegabile e irresistibile. Questo è vero non solo per le persone che troviamo belle, ma anche per l'arte (le immagini che guardiamo ripetutamente), la musica (i brani che ascoltiamo mille volte), i paesaggi (parti del Paese che non ci stancheremo mai di visitare ), e così via.

Uno di questi primi scrittori cristiani afferma che Dio è giustamente chiamato bellezza perché "la bellezza rivolge tutte le cose a sé e raccoglie tutto in sé" (Pseudo-Dionigi, Nomi divini IV.7). È perché c'è qualcosa di bello nella figura e nell'insegnamento di Cristo che le persone sono attratte a cercare di seguirlo e che continuano ad andare avanti nonostante molte difficoltà. L'offerta o il richiamo della bellezza non è invadente, aggressivo o violento. Non è un'imposizione che ci costringe ad andare in una direzione verso la quale preferiremmo non andare. Ma è innegabile e irresistibile, non poco potente visto il modo in cui opera.

Possiamo trovare poca bellezza nella figura e nella predicazione di Giovanni il Battista. Il suo è uno stile di vita strano. Punta il dito verso i nostri peccati e il nostro bisogno di pentimento. Verso il modo in cui noi non siamo all'altezza della bontà e della bellezza della santità di Dio. Ma per i cristiani egli è solo il precursore, viene ad annunciare l'arrivo di Cristo. Giovanni non è la luce ma colui che ci indica la luce. 'Io vi battezzo con acqua', dice, 'ma (colui che viene dopo di me) vi battezzerà con lo Spirito Santo' (Marco 1,8).

La luce, ovviamente, è Gesù. È colui cui il Battista rende testimonianza. Gesù è "la consolazione di Gerusalemme" e la definitiva rivelazione della gloria di Dio. È colui per cui siamo chiamati (attratti) per gridare: "Ecco il nostro Dio (Isaia 40: 9)". Crediamo che Gesù sia la bellezza di Dio fatta carne. Semplicemente in virtù di ciò che è, e di ciò che significa, ci invita a venire dietro di lui, a seguirlo e a condividere le sue vie. Egli "ci chiama" a diventare come lui e - il più profondo dei misteri che insegniamo - a condividere la sua vita divina, diventando partecipi della sua natura divina.

La vera bellezza dell'Avvento e del Natale non sono le graziose decorazioni che aggiungiamo all'esterno delle nostre vite, ma la chiamata radicale implicita nella nascita di questo bambino, che è il Figlio Eterno del Padre Celeste. Come possiamo relazionarci con questa "luce del mondo"? Che cosa dobbiamo fare di questo "mittente dello Spirito"? Qual è la nostra risposta alla sfida che ci offre? Naturalmente continuiamo ad attendere l'adempimento delle sue promesse in quel "luogo in cui la rettitudine sarà a casa", come dice la seconda lettura di oggi (2 Pietro 3,13). Ma nel frattempo siamo tutti chiamati a dare le nostre vite per costruire il suo regno di giustizia e gloria, dove la misericordia e la fedeltà si incontrano, e dove la giustizia e la pace si abbracciano. Questa è la visione, o chiamata, della bellezza che sostiene la nostra fede e la nostra speranza.


domenica 3 dicembre 2017

LO STUPORE E IL DESIDERIO DEI BAMBINI CI INSEGNANO L'ATTESA

AVVENTO, 1a Settimana, Domenica (Anno B)


Abbiamo sperimentato e assaggiato troppo, o amante,
Attraverso una fessura troppo ampia non si arriva ad alcuna meraviglia.

Sono i versi di una poesia chiamata Avvento, scritta da Patrick Kavanagh (1904-1967) e imparata da ogni scolaro e da ogni scolara irlandese della mia generazione. L'adulto che è esperto, compromesso e forse un po' cinico invidia la meraviglia e lo stupore che caratterizzano l'anima del bambino. Così il poeta parla della ‘novità che era in ogni cosa vecchia quando abbiamo guardato ad essa come bambini’. Egli spera che ‘il pane nero secco e il tè senza zucchero della penitenza risveglino un nuovo interesse per il lusso di avere un anima di bambino’.

Da bambini abbiamo un senso forte e naturale di meraviglia. Parte del prezzo di crescere sembra essere la perdita della freschezza e chiarezza che lo accompagna. Il mondo diventa ordinario. Diventa meno magico e più grave. Diventa indifferente e forse persino ostile. Qualcosa si perde, una nitidezza, un’acutezza, una luce, in cui anche le cose più ordinarie sono magiche e gli eventi più comuni misteriosi. Lo ritroviamo brevemente, forse, andando a vedere Harry Potter o Il Signore degli Anelli, ma il punto è se si può trovarlo di nuovo nella nostra vita reale e non solo nelle immagini tremolanti di un film.

Che dire di un ponte, una barca, un fiume, un campo, un autobus rosso (che meraviglia!), un sole di mattina presto sopra un mare lontano, binari del tram inutilizzati, catrame bollente in un giorno d'estate, il ronzio degli insetti, le luci di Natale - e molte altre cose ordinarie e il significato che hanno avuto per il bambino che eravamo una volta. Gli adulti ancora 'captano' qualcosa di meraviglioso di seconda mano, attraverso i loro figli. L'emozione e lo stupore dei bambini, soprattutto nel periodo di Natale, sono contagiosi. Attraverso i loro occhi si intravede ancora una volta quello che in passato abbiamo conosciuto - l'attesa eccitata del tempo di Avvento, il desiderio, quasi oltre ogni capacità, dell’arrivo di un grande giorno.

Il tempo di Avvento ci invita a riscoprire e tornare a qualcosa che abbiamo perso. Questo è ciò che la parola 'fare penitenza' significa - tornare indietro, girare intorno, ritornare. Dobbiamo fare questo non solo per lamentare quello che è stato perso, ma per riscoprire un certo impulso, per essere ancora una volta attenti, appassionati, svegli e attenti. Dobbiamo essere aperti alle meraviglie che il Signore rivelerà di nuovo nelle nostre vite (stanchi e cinici come si può essere a volte), le meraviglie che rivelerà di nuovo nel nostro mondo (ingiusto, violento e corrotto come ora, spesso, è).

Abbiamo sperimentato e 'assaggiato' troppo. I pensieri, le preoccupazioni e gli eventi tristi della vita ci opprimono. Le distrazioni ci impediscono di stabilirci profondamente dentro i nostri cuori. Può essere che siamo stati colti dall'indurimento e dall'oscuramento che seguono al peccato. Qualunque sia lo stato del nostro cuore di adulti, l'Avvento mantiene la promessa di farci vivere di nuovo in uno stato di totale meraviglia.

Questa nota di gioiosa attesa e intensa meraviglia viene emessa durante la liturgia del tempo di Avvento. Andiamo al monte del Signore, pieni di gioia mentre ci avviciniamo alla sua casa. Le spade saranno trasformate in vomeri, le lance in falci. Non ci sarà più addestramento alla guerra. Svegliati, perché ci sarà presto la luce del giorno e l'ora delle tristi tenebre sarà finita. Stai sveglio! Sii pronto! Sii attento, desideroso e in attesa, perché la venuta del Figlio dell'uomo sarà improvvisa e piena di significato.

Spesso le persone dicono che il Natale è per i bambini. È più esatto dire che il Natale è per gli adulti che non hanno dimenticato cosa vuol dire essere un bambino. È per coloro che hanno sofferto ‘i sassi e i dardi di una sorte crudele’ e non hanno permesso ad essi di distruggere la loro meraviglia o gioia o speranza. Natale è un tempo per riaccendere la nostra fede che il nostro Dio tornerà, aprendo una strada tra le valli e le montagne della nostra vita, rendendo possibile ciò che sembrava impossibile. Egli è, dopo tutto, il Dio che risuscita i morti.

Il bambino in noi non ha alcuna difficoltà a credere tali meraviglie e tutto quello che dobbiamo fare è avere fiducia che quel bambino sta vedendo qualcosa di vero. Dobbiamo essere i figli adulti del nostro Padre celeste, conquistati dal lusso di un’anima di bambino attraverso la preghiera e la riconciliazione, la penitenza e il retto vivere. Non è davvero un lusso, l'anima di questo bambino in noi. È essenziale per la nostra maturità in quanto solo se diventiamo come bambini saremo pronti ad entrare nel regno dei cieli, quando Egli viene.

giovedì 30 novembre 2017

LA BOCCA, IL CUORE E I PIEDI: LE "FACOLTÀ" DEL PREDICATORE

SANT'ANDREA APOSTOLO - 30 Novembre


Andrea è come il “maggiordomo” nel gruppo dei primi discepoli. Sembra che il suo compito sia quello di condurre le altre persone a Gesù, parlando loro di lui e a lui di loro, facendo le presentazioni. Nel vangelo di Giovanni questo succede tre volte. Verso la fine, alcuni Greci che vogliono vedere Gesù si avvicinano a Filippo ma egli va prima da Andrea ed è lui che organizza l’incontro col Signore. Nel sesto capitolo, è Andrea che porta a Gesù il ragazzo con i pani e i pesci per il miracolo della moltiplicazione. E all’inizio del vangelo, l’introduzione più significativa, dopo aver ‘incontrato il Signore e ricevuto il dono della fede’, disse poi Andrea a Simone, suo fratello, ‘abbiamo trovato il Messia’ e lo condusse da Gesù.

Vediamo qui un modo di capire la missione apostolica della predicazione del vangelo. Il nostro dovere, che è anche la nostra gioia, è di parlare di Gesù nel quale troviamo il Cristo, nostro Signore, e di facilitare in tutti i modi possibili l’incontro delle altre persone con Lui. Nella prima lettura, San Paolo, un altro grande “maggiordomo” della chiesa primitiva, parla della bocca, del cuore e dei piedi come i luoghi, o le facoltà possiamo dire, di questa predicazione apostolica. La fede in Cristo deve attuare queste facoltà in noi. Cosa significa? Possiamo dire che la predicazione, che comincia sulle labbra di qualcuno già inviato a predicare, arriva sulle nostre labbra, ma non senza radicarsi nel cuore ed esprimersi nel nostro modo di vivere, nella sincerità della nostra preghiera e nel cammino che proseguiamo. Come si dice in Inglese, non è sufficiente ‘talking the talk’ (=limitarsi a parlare), è necessario anche ‘walking the walk’ (=iniziare ad agire).

È dalle labbra del predicatore, l’insegnante della fede, che ascoltiamo per la prima volta l’annunzio del vangelo. Abbiamo bisogno di qualcuno che apra la sua bocca e parli per noi, o con noi, su Cristo. Proprio in questo giorno di Sant’Andrea, i miei padrini mi hanno portato nella chiesa di Sant’Andrea a Dublino per il battesimo e lì hanno parlato per me. (È un primo mistero della mia vita, perché non mi hanno battezzato ‘Andrea’ nella sua chiesa nel giorno della sua festa!) E io ho imparato a credere e, a mia volta, a parlare ad altri di lui. Ma la fede non è soltanto una confessione con la bocca, è anche un credere con il cuore. Come dice san Paolo, ‘con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza’. E poi cita quel brano del profeta Isaia sui predicatori, ‘quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene’.

Se la vita apostolica è una vita di parole, una predicazione, questa vita e questa predicazione si attuano, dice san Paolo, per la parola di Cristo. Le labbra, il cuore, i piedi: innanzitutto e fondamentalmente sono le facoltà dello stesso Gesù dalle quali sorge questo fiume di predicazione, di testimonianza e di fedeltà in Sant’ Andrea, San Paolo, San Domenico … in tutti coloro che testimoniano la loro fede in Cristo con la parola, con la preghiera e con l'amore.

domenica 8 ottobre 2017

QUALCOSA DI RADICALMENTE NUOVO

Settimana XXVII Domenica (Anno A)

Ci fu un tempo in cui l'Irlanda fu invasa da proprietari terrieri non residenti nelle proprie terre. Conoscendo le ingiustizie che accompagnano inevitabilmente questa forma di proprietà e di gestione, ci si potrebbe un po' turbare al pensiero di Dio come un padrone di casa assente, come pare che la lettura tradizionale di questa parabola suggerisca. La Galilea dell'epoca di Gesù aveva la sua parte di proprietari assenteisti: ricchi siriani ed egiziani che mantenevano lì delle proprietà, lavorate dagli affittuari, mentre loro stessi mandavano i propri agenti (i loro "servi" come li chiama la parabola) per riceverne i profitti al momento opportuno.
Ci sono altri aspetti di questa parabola che lasciano perplessi. Uno è il fatto che la lettura tradizionale sembra cadere un po' troppo facilmente nella conclusione che gli ebrei abbiano fallito e sia giunto il momento per i cristiani di prendere il loro posto ("a voi sarà tolto e sarà dato a un altro popolo"). Un recente commentatore afferma che l'interpretazione di questo testo è ora determinante nei rapporti ebraico-cristiani e si può capire il perché.
Un terzo mistero da mettere insieme a quello di Dio come padrone di casa assente, vero potenziale per l'antisemitismo, è lo strano cambiamento di Gesù in risposta al riepilogo dei leader ebrei su ciò che significa la parabola. La considerano come la storia di leadership e regime inaffidabili sostituiti da una leadership e un regime più affidabili, forse pensando a se stessi, e al fatto che l'accordo tra i Romani, Erode e i leader religiosi ebrei fosse migliore di una regalità corrotta che aveva portato alla distruzione e all'esilio molti secoli prima.
È sorprendente per noi che non mostrino interesse su chi possa essere il figlio della parabola. Ai cristiani che la ascoltano, certamente, essa appare come il culmine dell'iniquità nella storia e noi sappiamo perfettamente a chi faccia riferimento e quali eventi imminenti, la morte e la risurrezione di Gesù, siano accennati in questa parabola.
È probabile, però, che il riferimento alla pietra che appare dal nulla - non solo il riferimento ad essa, ma la pietra stessa secondo il Libro di Daniele - sia in realtà la chiave e il suggerimento del significato della parabola.
I capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo non mostrano alcun interesse per il figlio. Comprendono comunque il senso della storia: ogni proprietario assente degno di questo nome potrà disporre rapidamente di quegli affittuari malvagi e sostituirli. Dicono così: "Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo".
Poi Gesù parla della pietra e sembra una totale assurdità. L'ebraico può essere un aiuto, poiché in ebraico figlio è 'ben' e pietra è 'eben'. Ma il contesto è ancora più utile. Questa è una parabola raccontata a Gerusalemme e non solo a Gerusalemme ma nel tempio. Subito dopo l'entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme e la sua purificazione del Tempio. Si sta arrivando ad un climax nella vita di Gesù. La posta in gioco è sempre più alta e lui è abbastanza provocatorio nei confronti dei capi dei sacerdoti e degli anziani con quello che sta facendo e con la giustificazione che dà di quello che sta facendo.
A voi sarà tolto il regno di Dio - Matteo usa raramente questa espressione - dice Gesù, e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti. Il regno di Dio è il regno di cui si parla nel Libro di Daniele, rappresentato da una pietra che viene Dio sa da dove, schiaccia i regni terrestri e li sostituisce con un regno che non finirà mai (vedi Daniele 2). Gesù mette insieme questo questo testo con i testi che si riferiscono a una pietra rifiutata che diventa la pietra miliare (vedi Isaia 28:16, Lavoro 38: 6, Geremia 51:26, Salmo 118: 22). A quanto pare, la pietra che i profeti avevano in mente quando usavano questa espressione non era molto lontana da Gesù mentre parlava, perché era la pietra che costituiva l'apice del Tempio, una pietra scartata che ha trovato il suo posto nel luogo del più grande onore.
E forse questo ci aiuta a vedere come sia radicale e inquietante la parabola di Gesù e la sua sfida ai leader ebrei in questo momento. È radicale e inquietante e una sfida non solo per loro ma anche per noi che ascoltiamo e cerchiamo di capire cosa stia succedendo qui. Le persone a cui sarà dato il regno non possono essere banalmente identificate. Non è così semplice farlo come sarebbe il dire che non ebrei sostituiranno gli ebrei. Non è così semplice come sarebbe l'affermare che un gruppo di leader ebrei che sono diventati seguaci di Gesù sostituirà un altro gruppo di leader ebrei che si rifiutano di diventare seguaci di Gesù. Così succede nella storia degli imperi e delle istituzioni del mondo da tempo immemorabile.
Ma crediamo che qualcosa di radicalmente nuovo sia costituito in quello che sta succedendo a Gesù e in ciò che sta succedendo con Gesù. La Chiesa primitiva si trova rapidamente obbligata a parlare di una nuova nascita (come aveva fatto Gesù) e persino di una nuova creazione. Gesù stesso ha parlato di un diverso fondamento di identità e relazione, di una famiglia fondata sul fondamento della fede in lui. Il punto cruciale della parabola, con la strana conclusione della pietra rigettata, è che non si prevede solo un cambiamento di gestione, un svuotare la casa e riempirla di nuovi inquilini, ma qualcosa di molto più profondo. Dobbiamo pensare non solo a una nuova potenza terrena che sostituisca una vecchia ma di un nuovo tipo di potere che trascende costantemente i nostri assodati e tradizionali modi di vedere le cose, chiamandoci sempre a nuova vita.
Altrove nel Nuovo Testamento leggiamo di una vigna le cui viti sono potate se non portano frutto e noi sentiamo Gesù dire ai suoi discepoli qualcosa sull'andare e portare frutto, un frutto che durerà. Quel riferimento alla vite, in Giovanni 15, ci ricorda anche l'identificazione che Gesù fa di se stesso con la vite e di noi con i tralci. La prima lettura della Messa di oggi è una bella poesia, ma forse ci porta in errore quando pensiamo alla parabola che la echeggia. Perché è tutta la vite che è distrutta da Dio secondo Isaia e non solo la leadership al comando.
E il mistero più profondo di questi eventi che si svolgono negli ultimi giorni della vita di Gesù è come egli diventi Israele, egli è Israele, lui che prende su di sé, pur essendo giusto ed innocente, la punizione meritata dai peccati di Israele e anche dai nostri. La disgregazione della comunità di Israele, avvenuta storicamente con la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio di cui si trovano echi anche in questa parabola, avviene prima nel corpo di Gesù, distrutto sulla croce, ma in tre giorni ricostruito. La pietra rifiutata è diventata la pietra d'angolo: ecco uno dei grandi testi sulla risurrezione della Chiesa primitiva (vedi Romani 9,32, Efesini 2,20, 1 Pietro 2,4-7).
Come un commentatore antico ma ancora valido, C.H.Dodds, dice: "Gesù ha considerato il suo ministero come il culmine dei rapporti di Dio con il suo popolo ... la colpa di tutto il sangue dei giusti da Abele a Zaccaria sarebbe caduto su quella generazione". Il culmine di iniquità che è l'uccisione del Figlio diventa la costruzione della Pietra, rifiutata dagli uomini ma stabilita da Dio. Il torchio nella vigna, dice Tommaso d'Aquino nel suo commento a questa parabola, è l'altare del sacrificio. Noi continuiamo a partecipare a questi misteri del peccato e della colpa, della redenzione e dell'amore, in quanto offriamo il sacrificio del Figlio e preghiamo che attraverso la nostra partecipazione ad esso portiamo frutti per il regno di Dio.

domenica 24 settembre 2017

GIUSTIZIA E MISERICORDIA

Settimana XXV Domenica (Anno A)

«Non è giusto, la sua fetta è più grande della mia». «Non è giusto, ha di più!» «Non è giusto, volevo quella blu!».

Grida dell'infanzia che echeggiano nella mia testa. La parabola degli operai della vigna racconta di un gruppo di operai alcuni dei quali hanno lavorato tutto il giorno, altri per una parte del giorno e pochi per un'ora soltanto. Alla fine della giornata il proprietario paga ognuno di loro con la stessa somma di denaro. Coloro che hanno lavorato tutto il giorno sentono, comprensibilmente, che "non è giusto". Il proprietario della vigna era giusto nel dare loro quello che era stato concordato all'inizio della giornata. Eppure, c'è qualcosa che non torna ..

La maggior parte di noi sente che coloro che hanno lavorato tutto il giorno hanno ragione. Quelli che sono arrivati dopo sono stati stranamente pagati di più per ora di lavoro. Com'è irritante per il primo gruppo sentire il proprietario che fa notare di essere perfettamente giusto, sapendo che, strettamente parlando, lo è, ma allo stesso tempo ce l'hanno con lui.

È molto difficile combinare giustizia e misericordia. Per come li capiamo e ne facciamo esperienza, sembrano incompatibili. Come puoi essere completamente giusto mostrando misericordia (perché la misericordia suona come un "assolvere qualcuno", "accettare di ignorare qualcosa" o addirittura "lasciare che qualcuno la faccia franca con qualcosa")? Come si può mostrare misericordia ed essere al tempo stesso rigorosamente giusti (perché il non insistere sui propri diritti o il non insistere su ciò che ci è dovuto, suona come una decisione di rinunciare alla giustizia)?

Lo stesso problema salta fuori nella storia del figlio prodigo dove il fratello più grande ritiene che il più giovane la stia facendo del tutto franca, divertendosi in un paese straniero, perdendo la sua eredità e poi tornando a casa per essere ricevuto come un principe, anziché come l'irresponsabile perdigiorno che è. La parabola di Matteo degli operai della vigna si occupa degli stessi problemi della parabola di Luca del figlio prodigo.

Di quali problemi? Ebbene, nel contesto in cui Gesù raccontò queste storie, la questione principale era la reazione dei farisei e degli altri al fatto che Gesù accoglieva i peccatori e mangiava con loro. I farisei sono quelli che hanno lavorato tutto il giorno nella vigna del Signore, i peccatori sono quelli che vagano senza meta quando il giorno è quasi finito. Oppure gli ebrei sono quelli che hanno lavorato per tutto il giorno - sono stati il popolo di Dio da secoli addietro - mentre i pagani sono quelli che vagano senza meta alla fine della giornata. Qui è l'importanza della predicazione di Gesù, legata in particolare alla sua frequente affermazione secondo cui egli non è venuto per i sani ma per i malati.

Quindi una prima domanda è se pensiamo a noi stessi come malati o sani. In relazione a Dio, ci consideriamo come appartenenti ai giusti che hanno lavorato duramente tutti questi anni o sentiamo di appartenere ai peccatori cui oggi viene dato il rassicurante ​​messaggio che "non è mai troppo tardi"? Il vangelo di oggi ci sfida in modi differenti, a seconda che ci troviamo tra i malati o i sani.

Una seconda domanda è come consideriamo le altre persone, specialmente quelle che si potrebbe pensare che si siano allontanate da Dio e dalla via della virtù. E se tornano, anche alla fine? È una causa di gioia per noi, una gioia che condividiamo con loro, o ci sentiamo un po' sbalorditi che si siano allontanati così tanto e ci sentiamo di gridare a Dio che 'non è giusto'?

La sensazione di esclusione da ciò che un'altra persona sta godendo fa parte dell'invidia. Ma i doni di Dio non sono come altri tipi di doni. Da bambini sapevamo molto bene che più la torta e il cioccolato erano divisi, meno ce n'era per ciascuno. Con i doni di Dio - grazia, compassione, amore, misericordia - succede che tanto più sono divisi quanto più crescono, perché ognuno che veramente riceve questi doni di Dio e comprende il loro significato diventa a sua volta una fonte di grazia, di compassione, di amore e misericordia nel mondo.

Non possiamo mettere le nostre menti e i nostri cuori dentro le vie di Dio per contenerle o comprenderle. "Le vie di Dio non sono le nostre vie e i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri", dice Isaia. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le vie e i pensieri di Dio sovrastano le vie e i pensieri umani. E quanto le sovrastano? La mente resta sbalordita, e la scienza moderna la confonde ancora di più. Come creature si può dire che siamo come Dio, ma Dio non è come noi, come tanti passi della Bibbia ci insegnano. La parabola di oggi ci spinge a considerare un solo aspetto di questa distanza infinita. Più entreremo nel mondo di Dio, più contempleremo il mistero del suo amore, più cercheremo di vivere secondo il suo spirito e più i nostri standard di onestà e di affari ragionevoli saranno capovolti. "Gli ultimi saranno i primi e i primi, ultimi". Solo l'amore può insegnare la verità di questo paradosso, che l'ingiustizia di Dio è più giusta della giustizia umana.

domenica 17 settembre 2017

RICORDA PER IMPARARE IL PERDONO

XXIV Domenica A

Le letture di questa domenica costituiscono come una sfida per due perle della saggezza popolare. La prima perla sostiene che una persona che ha avuto una particolare esperienza negativa sarà automaticamente empatica e comprensiva verso un'altra persona che ha un'esperienza simile. Molta cura pastorale e tanto supporto terapeutico operano su questa base e ciò sembra ragionevole. Ci aspettiamo che coloro che abbiano sperimentato una particolare perdita o ansia siano più portati ad aiutare gli altri a subire quella perdita o percepire quell'ansia.
Ma il servo della parabola evangelica non ha compassione dell'uomo che gli deve dei soldi anche se il proprio creditore lo aveva appena liberato da un debito molto più grande. La sua azione è sorprendente per coloro che osservano la scena ed è sorprendente per noi, fino al punto che potremmo benissimo restare indifferenti di fronte alla tortura cui è sottoposto alla fine. Potremmo persino trovare gioia in quella tortura e dire 'è degna di lui'.
E qui è la meravigliosa trappola posta da questa parabola, perché ci ritroviamo a comportarci come lui. Chi è lui se non il personaggio di una storia che ha un debito immaginario e chi siamo noi, se non i veri peccatori che sono stati liberati da Dio da un debito reale, la conseguenza dei nostri peccati? Potremmo immaginare che il servo malvagio sotto tortura si volti, guardi verso di noi con gli occhi arrossati e dica: "Pensi di essere diverso da me? Chi di voi, pur essendo stato sciolto da Dio dal debito dei propri peccati, non ha a volte rifiutato di perdonare gli altri, non ha dato tormenti e dolore, non ha usato ogni strategia per farla franca mentre chiedeva conto agli altri severamente del loro operato?'
L'altra perla di saggezza popolare cui le letture lanciano una sfida è che gli esseri umani progrediscono perdonando e dimenticando. Anche questa perla sembra ragionevole, e questi sono i consigli spesso dati a persone che non riescono a lasciarsi alle spalle un'esperienza triste o un tradimento doloroso: "Cerca di perdonare e dimenticare, devi andare avanti e non permettere che questa cosa continui ad avvelenare la tua vita". Ma le letture oggi ci dicono che il perdono è possibile non dimenticando il passato, ma ricordandolo, ricordando di più il passato, ricordando la nostra situazione attuale e ricordando il nostro futuro destino. Se la saggezza popolare dice "perdona e dimentica", la saggezza biblica, arrivando al suo culmine in Cristo, dice "ricorda e così impara il perdono".
I compagni del servo malvagio sono stupiti che egli possa dimenticare così rapidamente la misericordia che gli era stata mostrata. Se tu o io abbiamo difficoltà a perdonare qualcuno, allora possiamo cominciare da qui, ricordando le volte in cui siamo stati perdonati. La prima lettura, dal Libro del Siracide, inizia il suo insegnamento sul perdono a partire da questo punto. Non è ragionevole aspettarti perdono e misericordia se tu non sei disposto a mostrarli. È assurdo continuare a chiedere la misericordia di Dio se non sei disposto ad avere pietà per gli altri. Dobbiamo ricordarci almeno questo.
Ma ci sono altre cose che dobbiamo ricordare mentre cerchiamo di perdonare. Ricorda la fine della tua vita, dice il Siracide, ricorda la distruzione e la morte. Come potrai guardare indietro, possiamo immaginare che dica, se non sei stato in grado di trovare un modo per perdonare. Forse ci ricorda anche il giudizio, il fatto che ognuno di noi deve rendere conto di sé a Dio e dove saremo allora, ansiosi di essere perdonati, ma non comprendendo ciò che il perdono significa perché non lo abbiamo praticato.
Ricorda i comandamenti, continua il Siracide, e ricorda l'alleanza dell'Altissimo. "Fate questo in memoria di me", dice Gesù nell'ultima cena. Ricorda l'alleanza dell'Altissimo, la nuova ed eterna alleanza, sigillata non da un servo crudele (fittizio) sotto tortura, ma dal Figlio (reale) di Dio inchiodato alla croce. Se vuoi imparare il perdono ricorda come il cuore umano della Parola Eterna fu trafitto. Ricorda come quel sangue ha tirato giù le pareti dell'ostilità tra le persone e ha consolidato la pace. Non è una questione di perdono e dimenticanza. È questione di memoria, di ricordare molte cose, e così imparare ciò che significa il perdono.
Coloro che credono in Gesù devono essere ambasciatori del perdono nel mondo e messaggeri di riconciliazione. Ma il perdono non è facile da realizzare e la capacità di perdonare non è una cosa che si raggiunge intenzionalmente. Non importa quanto potente possiamo considerare la nostra forza di volontà, non possiamo forzarci nel perdono. Alla fine è un dono di Dio come Alexander Pope intimò nel suo famoso commento che "errare è umano, perdonare divino". Forse non si tratta di qualcosa che facciamo, ma di qualcosa che ci troviamo capaci di sperimentare, frutto dello Spirito Santo in noi, segno della vita di Cristo in noi, partecipazione alla natura divina, un modo di relazionarci con gli altri nei quali ritroviamo noi stessi (per grazia di Dio) diventando compassionevoli come è compassionevole il Padre celeste .


domenica 10 settembre 2017

LA VERITÀ DELLA COMUNIONE

XXIII Domenica A

Alcuni anni fa il teologo Peter Candler pubblicò un articolo con l'accattivante titolo "Fuori della Chiesa non c'è morte". Che cosa poteva significare? Egli intendeva dire che è solo in una comprensione cristiana dell'esperienza umana che la realtà della morte può essere pienamente compresa. Solo la persona con la virtù teologica della speranza, e la comprensione della persona umana che è richiesta da una tale virtù, può guardare in faccia la morte e vederne tutto l'orrore.
Spesso, noi credenti ci uniamo ai nostri contemporanei negando, in vari modi, la realtà della morte. Ne parliamo come se non fosse un grosso problema, come se fosse un passare da una stanza all'altra, e immaginiamo che la vita continui più o meno come prima, ma senza mal di testa o indigestione, senza sangue, sudore o lacrime. La persona di speranza, invece, non ha una tale visione delle cose con cui consolarsi. L'oggetto diretto della nostra speranza è Dio, non una forma futura della vita umana. L'oggetto della speranza è Dio che è amore e che è la vita, nella cui Parola abbiamo fiducia quando ci parla di una partecipazione alla sua vita eterna. Ma non sappiamo praticamente niente di che cosa sarà o di come sarà, tranne che sarà una vita, che sarà una vita d'amore e che comporterà la compagnia di Cristo e dei santi.
Proprio come si può essere veramente coraggiosi solo quando si affronta qualcosa di pauroso, così è possibile sperare solo quando si affronta qualcosa che presenta estrema difficoltà. Proprio come la paura e il coraggio non sono incompatibili, ma uno richiede l'altro, così la tristezza e l'ansia da un lato e la speranza dall'altro, non sono incompatibili ma si richiedono reciprocamente. Tant'è vero che la speranza rende possibile la vera tristezza proprio come il coraggio ci dà un vero apprezzamento di ciò che temiamo. Questo, credo, è ciò che Candler intendeva dire sul fatto che al di fuori della Chiesa non c'è morte: solo in una comprensione cristiana dell'esperienza umana possiamo assaggiare pienamente la realtà di situazioni negative come la paura, l'ansia, la tristezza e la perdita.
La lettura evangelica di oggi riguarda la scomunica, la situazione triste e difficile nella quale la comunità cristiana giunge alla conclusione che uno dei suoi membri, per motivi di fede o stile di vita, non è più in piena comunione con la Chiesa. Preferiamo non pensare a tali cose, come preferiamo non pensare alla realtà della morte. Infatti, la scomunica è una specie di morte, una ferita terribile nel corpo di Cristo, una vera tristezza e una profonda perdita. Significa che non abbiamo mantenuto la comunione a cui Cristo ci chiama e per cui ha pregato nella sua ultima grande preghiera al Padre.
La lettura del Vangelo dice che dobbiamo fare ogni tentativo per mantenere quella comunione: parlare privatamente con una persona prima di tutto, parlarle in presenza di una o due altre persone, e solo se è assolutamente necessario porre il caso all'attenzione di tutta la Chiesa. La conclusione è fredda e possiamo anche chiederci: 'è cristiano'? Sicuramente possiamo trovare un modo per stare insieme, per rimanere in comunione! Ma anche la verità preme, non per servire una struttura del potere o per mantenere una certa finta conformità. La verità preme perché è la verità di quella comunione stessa: cosa potrebbe succedere se il fondamento della nostra unità fosse annullato da ciò che una persona crede o da come una persona vive? La nostra comunione morirebbe.
Questo passo del vangelo di Matteo tratta della difficoltà di rimanere insieme e riflette su come, anche nella Chiesa primitiva, successe molto rapidamente che si presentassero dei problemi a stare insieme. A volte le persone faranno le cose, o arriveranno a credere delle cose, che la Chiesa considera incompatibili con la vita del vangelo. Ovviamente esitiamo a usare la parola "scomunica" ma nei rapporti umani è questa a volte, purtroppo, la realtà. Anche dopo aver fatto del nostro meglio, non vediamo come alcuni possano restare dentro la vita della comunità. Alcuni modi di vivere e alcune convinzioni non sono compatibili, per quanto possiamo vedere, con la vita nella Chiesa. Di solito sono le persone stesse che prendono la decisione di separarsi dalla Chiesa perché non condividono più le proprie convinzioni o non sono più convinti della bontà del suo insegnamento. Molto raramente la Chiesa stessa fa questa decisione su una persona o un gruppo di persone.
Non possiamo mai essere felici dell'esclusione di un fratello o di una sorella. È una morte e la morte è terribile, l'ultimo nemico dell'uomo che fiorisce, un fallimento definitivo. Ma nell'ambito della speranza cristiana, l'esclusione non può mai essere l'ultima parola su una persona o sul nostro rapporto con lei. Tali persone rimangono sempre figlie del Padre celeste, chiamati ad essere fratelli e sorelle di Gesù. Mi piace pensare che i due o tre riuniti nel nome di Cristo alla fine di questa lettura evangelica sono gli stessi due o tre che hanno precedentemente affrontato il fratello o la sorella nell'errore. Stanno pregando e la preghiera è l'atto proprio della virtù della speranza. Nella loro mente mentre pregano deve esserci lo stesso fratello o sorella cui la Chiesa ha deciso di rapportarsi come se fosse un pagano o un esattore delle tasse. E c'è Cristo in mezzo a loro.
Fuori della Chiesa non c'è morte perché la vita cristiana ci rende più sensibili alla verità di ciò che la morte è veramente. Ma al di fuori della Chiesa, possiamo dire, non c'è un "fuori", perché le preghiere della Chiesa, come l'ansia dei genitori amorevoli, seguono i propri figli ovunque. Anche quando non possiamo vedere come si possa trovare l'unità e la riconciliazione, dobbiamo continuare a sperare di raggiungerle, pregare e lavorare per conquistarle. Tutti i comandamenti sono riassunti, dice San Paolo, in questo: "Ama il prossimo come te stesso". Sappiamo che tutti sono il nostro prossimo, quelli che vivono e quelli che sono morti, quelli che sono malati e quelli che stanno bene, quelli che sono in comunione gioiosa con noi e quelli che sono in triste separazione da noi. Noi sfioriamo i limiti delle nostre capacità, ma sappiamo che il Signore, crocifisso per la nostra riconciliazione, allunga le braccia lungo gli orizzonti più lontani di questa creazione per raccogliere tutti i figli di Dio dispersi.

domenica 6 agosto 2017

ADORARE DIO SIGNIFICA VIVERE NELLA VERITÀ

Trasfigurazione del Signore
Ascoltiamo il vangelo della trasfigurazione di Gesù ogni seconda domenica di Quaresima e di nuovo in occasione della festa di oggi, la festa della Trasfigurazione del Signore. Quest'anno è il turno del vangelo di Matteo, ma è illuminante pensare a ciò che ciascuno degli evangelisti decide di ignorare e a ciò che decide di includere rispetto agli altri due racconti della stessa esperienza.
Matteo, ad esempio, non mostra Pietro e gli altri due discepoli abbastanza ottusi come potrebbero sembrare in Luca e Marco. Il commento che Pietro, sempre il primo ad aprire bocca, "non sapeva che cosa dire", è omesso da Matteo. Egli è generalmente più benevolo nel suo resoconto sui discepoli  e, comunque, certamente più gentile di Marco che li presenta come quelli che prendono sempre qualche cantonata.
Qui, l'approccio di Matteo corrisponde a un aspetto di ciò che significa la trasfigurazione, che è un momento di rassicurazione per i discepoli. Succede, ci dice, "sei giorni dopo". Sei giorni dopo? Sei giorni dopo che Gesù aveva detto loro per la prima volta che doveva andare a Gerusalemme, essere rifiutato e condannato, soffrire e essere messo a morte. La trasfigurazione è un momento di rassicurazione e di incoraggiamento per loro per continuare a seguire Gesù anche in vista di ciò che Gesù aveva iniziato a dire loro circa il proprio destino. È un "sigillo divino" sulla via che Gesù sta percorrendo e su ciò che sta dicendo della sua missione.
La scena è ricca di figure, scenari e testi tradizionali e familiari. Naturalmente, i discepoli sapevano chi erano Mosè ed Elia. Il paesaggio - su una montagna, con una nuvola che fa ombra e una voce  - evoca immediatamente un'esperienza della presenza divina. Sicuramente essi capirono qualcosa anche del significato delle parole pronunciate dalla nube. Del figlio amato di cui Dio si compiace, riferiscono Isaia e altri profeti. Potrebbero aver avuto familiarità anche con la profezia di Mosè nel Libro di Deuteronomio su un grande profeta, la cui autorità sarebbe stata paragonabile a quella di Mosè stesso. "Ascoltatelo", aveva detto Mosè, fornendo le parole per la voce divina della trasfigurazione.
Ma se i personaggi e le scenografie e le parole di questo momento drammatico sono tutte familiari, il significato del loro essere messe insieme in questo modo e colui intorno al quale sono messe insieme, ne fanno un'esperienza di qualcosa di radicalmente nuovo. Anche se ciascuno dei suoi elementi è anticipato nell'Antico Testamento, non c'è assolutamente nulla di simile nell'Antico Testamento. Gesù sta aiutando i discepoli a fare il passaggio dai modi in cui hanno capito la vita e Dio fino ad allora ad un modo completamente nuovo di comprensione della vita, di Dio e di se stessi per il futuro. Il cammino che viene chiesto loro di fare è solidamente radicato in tutto quello che era stato loro insegnato sul Dio d'Israele e tuttavia è un cammino che li trasformerà completamente per quanto riguarda quello che pensavano e come vivevano. È insieme familiare e completamente misterioso, quindi la loro paura è comprensibile.
Relativamente a questo c'è un altro dettaglio del racconto di Matteo, che non è menzionato né in Luca né in Marco. Gesù, ci dice, li toccò e disse loro di alzarsi. Hanno fatto ciò che gli esseri umani dovrebbero fare alla presenza di Dio: si sono inchinati, si sono inginocchiati e si sono buttati con la faccia a terra. Ma il grande risultato dell'adorazione di Dio, ben diverso dall'adorazione di tutto ciò che è inferiore a Dio, è che ci rialziamo più grandi per il fatto di aver adorato.
Ogni volta che adoriamo qualcosa di meno di Dio dobbiamo consegnare una parte della nostra identità a quella cosa. Siamo quindi meno di quanto potremmo essere per il fatto di avere adorato un idolo. Può essere il denaro o il potere o un gruppo di persone o un'ideologia politica o un'organizzazione religiosa o una vaga astrazione - l'adorare un idolo, un falso dio, ci rende sempre meno di quello che siamo. Quando lo facciamo, dobbiamo rendere omaggio a tutto ciò che adoriamo in questo modo. Dobbiamo investire qualcosa di noi e tali falsi dèi hanno grandi appetiti.
Ma adorare Dio non significa perdere nulla della nostra identità. Infatti significa l'opposto, perché non siamo rivali di Dio e Dio non è un nostro rivale. Adorare Dio è vivere nella verità. Questa è la realtà della nostra situazione: siamo creature e servi di Dio, chiamati a seguire la via del Suo Figlio. Alla presenza di Dio, il Figlio ci dice di "alzarci". Abbiamo già un'assaggio della grandezza che viene rivelata, non solo la grandezza rivelata in Gesù, ma la grandezza rivelata in Lui per noi. La seconda lettura parla della «potenza di Dio che ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall'eternità».
Romano Guardini, un teologo che lavorava a Berlino quando il potere nazista era all'apice, decise con colleghi e amici di provare a diffondere dichiarazioni per contrastare ciò che stava succedendo. Decise di scrivere prima di tutto sull'adorazione, perché l'adorazione, dice, è "la salvaguardia della nostra salute mentale, della nostra più profonda solidità intellettuale". "Ogni volta che adoriamo Dio", scrive, "qualcosa succede dentro di noi e su di noi. Le cose rientrano in una vera prospettiva. La vista si affina. Molto di quanto che ci disturba va a posto. Si distingue più chiaramente il bene e il male. ... Raccogliamo le forze per soddisfare le esigenze che la vita ci impone, fortificati nel cuore stesso del nostro essere, e acquisendo una solida comprensione della verità ".
Inginocchiarci prima che Dio esprima la verità della nostra situazione; essere abilitati ad alzarci in piedi in presenza dello stesso Dio, su invito del Suo Amato Figlio e attraverso la sua opera salvifica, è la grazia meravigliosa che si è manifestata attraverso la comparsa di Gesù nostro Salvatore.

domenica 30 luglio 2017

LA RICERCA DEL REGNO

XVII Domenica A

Salomone è ricordato per la sua saggezza e per questa reputazione la maggior parte della letteratura sapienziale della Bibbia è attribuita a lui. Per lui la perla di grande valore, il tesoro nascosto nel campo di questo mondo, è la saggezza e la comprensione, necessari per governare bene. Il Signore è soddisfatto della sua richiesta e gli dà un cuore saggio e intelligente.
La persona che trova il tesoro nascosto in un campo è, ci dice Gesù, piena di gioia. È trasformata, la sua vita è radicalmente cambiata, mentre va e vende tutto per comprare il campo. Il mercante si trova in una situazione diversa dal momento che il suo compito è cercare perle. Passa la sua vita alla ricerca e alla fine ne trova una di grande valore. Non ci racconta la sua gioia, ma possiamo presumerla, dato che anche lui va, vende tutto ciò che ha e compra la perla.
In un caso ci viene detto che il Regno dei Cieli è come il tesoro, nell'altro caso ci viene detto che il Regno è come la ricerca del mercante. Quindi il Regno è nel rapporto tra le persone e qualcosa di grande valore che dà loro gioia e diventa il centro assoluto della loro vita, la loro ossessione. Potrebbero trovarlo sul loro cammino fortuitamente o come risultato di una lunga ricerca. In entrambi i casi, diventa l'obiettivo esclusivo della loro vita da quel momento in avanti.
Così Dio è diventato l'obiettivo esclusivo della vita di Mosè dopo il suo incontro con Lui nel roveto ardente. Così è stato anche per Davide e per Salomone che, nonostante le loro molte altre distrazioni e debolezze, rimasero concentrati sul Signore e sulle sue intenzioni per il suo popolo. Ancora più che per costoro, il Padre è il centro esclusivo della vita di Gesù fin dal primo momento della sua esistenza.
Ci restano delle domande sull'uomo che ha trovato il tesoro e il mercante alla ricerca di perle. Per quale motivo hanno voluto queste ricchezze? La richiesta di Salomone ha senso per un uomo nella sua posizione. Per il cercatore del tesoro e per il cercatore di perle sembra che bastasse loro possedere una così grande ricchezza.
Con il tesoro del Regno, o il tesoro affidato a Mosè da Dio, o la saggezza affidata a Salomone da Dio, o la missione affidata agli apostoli da Gesù, abbiamo le parole delle Scritture per spiegarci perché il Regno è il Tesoro nascosto nel campo e la perla di grande prezzo. Ci insegnano perché sia ​​valida la ricerca del Regno. È perché significa vita per gli esseri umani, la pienezza della vita per gli esseri umani, la vita eterna per gli esseri umani. Conoscere il Padre e Gesù Cristo che ha mandato: questa è la vita eterna, dice Gesù all'inizio della sua preghiera sacerdotale nel vangelo di Giovanni. Vale la pena esplorare, valutare, studiare e mettere in pratica la legge, i profeti e le scritture . Le parole delle Scritture sono il campo in cui cerchiamo il tesoro. Perché cercare lì, qualcuno potrebbe chiedere? Con Pietro possiamo rispondere: dove altro possiamo andare? Le Scritture riguardano tutte Gesù ed è lui che ha le parole di vita eterna.

giovedì 27 luglio 2017

LA VIA DEL PARADOSSO E DEL MISTERO



Si dice che Mark Twain affermasse che non erano le parti della Bibbia che non capiva che lo preoccupavano, ma quelle che capiva. Ci sono molte cose che capiamo e con le quali possiamo campare. Quello che Gesù chiede ai suoi discepoli è molto chiaro: il grande comandamento dell'amore, il nuovo comandamento di amarci l'un l'altro come lui ci ha amati, la compassione del Buon Samaritano e del Padre Prodigo, il prendere ogni giorno la propria croce per seguirLo, pregare come Lui pregava, stare con gli altri come Lui stava con gli altri ...
Forse pensiamo che le parti della Bibbia che non capiamo contengano una verità più sofisticata o profonda di quelle che capiamo. Di fronte a una dichiarazione come quella del vangelo di oggi, che "a chiunque ha sarà dato, e sarà nell'abbondanza; ma a chiunque non ha sarà tolto anche quello che ha", potremmo solo grattare le nostre teste e dire: "Bene, è una sorta di pensiero poetico, una sorta di saggezza paradossale: non avendo senso logico, andiamo avanti con quello che capiamo ..."
C'è qualcosa da imparare nel vivere con i paradossali e sconcertanti insegnamenti delle Scritture, ma sembra avere più a che fare con il tipo di pedagogia di cui abbiamo bisogno e il tipo di ignoranza da cui dobbiamo essere salvati piuttosto che con l'insegnamento stesso. Gesù non è venuto a insegnare una dottrina pubblica per molti e una dottrina privata per pochi. La sua dottrina è chiara e ben pubblicata e il mondo intero sa quello che è.
Il problema per noi è entrare in una comprensione vera e rispettosa di quella dottrina, ed è qui che entrano in gioco i misteri e i paradossi. Possiamo imparare in maniera relativamente facile le risposte alle domande del catechismo. Ma ci sono cose da cui dobbiamo liberarci se vogliamo vivere ciò che leggiamo e l'unico modo per raggiungere questa libertà è il paradosso e il mistero. Altrimenti crederemo di capire. Ci illuderemo di vedere. Penseremo di sentire. Per motivi che hanno a che fare forse con la creaturalità e certamente con il peccato, il mezzo della nostra formazione deve includere questi momenti di perdita ed esilio, di cadere nell'oscurità e tornare alla luce, di non avere nulla, neanche una filosofia soddisfacente di quella nullità.
Spesso preferiamo lasciare che altri entrino nell'oscurità del mistero divino: santi, mistici, profeti, insegnanti. Ci uniamo alla folla ai piedi della montagna, in attesa di ascoltare quello che hanno da dire quando ritornano. Ma Gesù chiama ognuno di noi dentro quel mistero, chiama ognuno a vedere in modo nuovo, ad ascoltare in modo nuovo, ad ascoltare e a capire. Per questo abbiamo bisogno del cuore nuovo che ci dà, un cuore ammorbidito dall'apertura alle sofferenze del mondo.

martedì 25 luglio 2017

NEMICI E AMICI DELLA COMUNIONE

La Lettera di San Giacomo viene in mente quando si pensa alla vita della comunità. Inevitabilmente i giovani che vengono a cercare i Dominicani parlano della vita della comunità come di una delle cose che vogliono, una delle cose che li attrae verso il nostro modo di vivere. Ma sappiamo dall'esperienza che la vita comunitaria diventa spesso problematica in seguito, alcuni arrivano al punto di trovarla pesante, inutile e un peso che sembra non valga la pena portare. La Lettera di Giacomo parla di questo, di persone che credono in Cristo che cercano di vivere insieme e delle difficoltà che essi sperimentano. Ha molti commenti relativi alla vita della comunità nella sua discussione sui vizi e sulle virtù, sulla rabbia e sulla parzialità, sul controllo della lingua, sulla gelosia e sull'ambizione. È una lettera molto pratica.
Giacomo punta il dito sugli atteggiamenti e le disposizioni che rendono difficile la vita. Le persone si sentono solitamente sollevate quando ricevono una "diagnosi" per un problema anche prima di sapere se ci sia un trattamento per esso e che cosa il trattamento potrebbe comportare. Capire dove nascano i problemi, e innanzitutto perché ci siano problemi, è già una crescita nella saggezza. Giacomo fa questo per noi. La lettera appartiene fermamente alle tradizioni ebraiche di sapienza pratica, basandosi sulla letteratura sapienziale e profetica dell'Antico Testamento. Ciò la avvicina a gran parte del più antico materiale evangelico. Il suo insegnamento è simile a quello che troviamo in Matteo e Luca, sulle beatitudini e i guai, sugli atteggiamenti nei confronti della legge, sul non giudicare gli altri, sulla preghiera, il pericolo delle ricchezze e così via.
Giacomo è molto chiaro sul fatto che i problemi nelle comunità nascono come conseguenza di problemi all'interno degli individui: 4,1ss. Quindi non troviamo qui un'analisi marxista, che consideri i problemi come originati dai sistemi o dalle strutture o dall'uso di potere di altre persone, ma piuttosto un'analisi spirituale e persino psicologica, che vede come i problemi di convivenza derivino da conflitti interni all'individuo. Ecco perché il desiderio è una preoccupazione centrale nella lettera. Si riferisce non solo alla voglia, ma ad "avere" in generale, e a "volere" in generale, a quel tipo di avere e di volere che può essere realizzato solo a scapito degli altri. "Dove c'è invidia e contesa, c'è disordine", dice in 3,16. Ecco quando le cose vanno male. Secondo il linguaggio dell'Antico Testamento, è stoltezza, che si manifesta come amara gelosia e ambizione egoista. Voglio avere - ma il mio volere avere scatena in me queste cose negative: la gelosia e l'ambizione. La sua analisi sembra anticipare il genere di cose di cui parla René Girard nella sua analisi del desiderio e delle sue conseguenze distruttive per le società umane.
C'è, comunque, anche un livello "socio-politico" nell'analisi che troviamo in Giacomo. Parla del pericolo delle ricchezze e del potere, del modo in cui ci comportiamo con i ricchi e potenti e il modo in cui ci comportiamo con i poveri e gli umili. C'è anche la possibilità che rispondiamo in modo diverso a persone pulite, ordinate e ben vestite, a persone sporche, disordinate e maleodoranti. Ci scopriremo a reagire diversamente di fronte a persone che il mondo ha deciso che sono importanti e di fronte a coloro che ha deciso che non sono importanti. Possiamo tradurlo nei nostri rapporti tra le famiglie e le comunità: chi conta? Qual è l'ordine gerarchico?
Quindi cosa fare? La preghiera è una delle cose da fare e Giacomo parla di questo parecchie volte per essere una lettera così breve e non solo nel celebre passaggio che la Chiesa vede come l'istituzione del sacramento dell'unzione, la preghiera di fede per il malato. E c'è una svolta interessante perché Giacomo ci avverte che possiamo anche mettere la nostra preghiera al servizio del nostro desiderio. Potresti dire: "Beh, non è quello che dobbiamo fare?" Tommaso d'Aquino definisce la preghiera come "l'interprete del desiderio". Ma Giacomo dice: "Domandate e non ricevete, perché domandate male per spendere nei vostri piaceri" (4,3). Le passioni di cui ha appena parlato sono gelosie e ambizioni, quindi dobbiamo fare attenzione a non cercare di mettere la nostra preghiera al servizio di queste.
Mentre leggiamo la lettera probabilmente ci ritroveremo a desiderare che Giacomo sia più cristiano - che dica qualcosa su Cristo, sull'amore e sulla grazia. Non dice molto di Cristo, menziona l'amore per il prossimo come la "legge regale" e ripete i passaggi dell'Antico Testamento che dicono che Dio dona la sua grazia agli umili.
Per uno che parla molto della misericordia, la sua analisi è abbastanza spietata. Egli inventa una parola per i suoi lettori - tu sei dipsuchos, dice, di animo doppio, diviso, il tuo desiderio è frammentato e qui è la radice dei tuoi problemi. "Soprattutto", dice in 5,12, e ci aspettiamo qualcosa di grande dopo tutto questo, "soprattutto, non giurate né per il cielo, né per la terra, né con altro giuramento; ma il vostro sì, sia sì, e il vostro no, sia no'. È un po' deludente dopo il comando ("soprattutto"), ma il mondo sarebbe trasformato e la nostra vita comunitaria migliorata notevolmente se usassimo le nostre lingue con la cura che Giacomo raccomanda e se quando parliamo lo facessimo con l'integrità e la franchezza cui egli esorta.
Anche se non trova il tempo di indicare soluzioni chiaramente come altri moralisti del Nuovo Testamento (Paolo, 1 Pietro), Giacomo individua brillantemente  i problemi della vita comunitaria e ci ricorda la necessità di mettere la nostra fiducia nella grazia di Dio (Giacomo 4,7a, 8,10).

domenica 23 aprile 2017

LA FEDE: UN CONTATTO MISTERIOSO CON DIO

II Settimana di Pasqua - Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia (Anno A)

Letture: Atti 2,42-47; Salmo 118; 1 Pietro 1,3-9; Giovanni 20,19-31 

Ogni religione, possiamo pensare, opera una distinzione tra ciò che San Paolo chiama la carne e lo spirito. La religione si occupa di cose spirituali e attualmente è spesso chiamata semplicemente "spiritualità". Paolo ci incoraggia ad essere spirituali piuttosto che non spirituali.
Gesù è spesso impegnato nel tentativo di condurre i suoi ascoltatori da ciò che potremmo chiamare una comprensione "carnale" dei desideri umani a una "spirituale". Alla donna di Samaria viene insegnato che negli esseri umani oltre alla sete fisica c'è una sete spirituale di acqua viva (Giovanni 4). I discepoli interpretano un riferimento al cibo come un'affermazione sulla fame fisica e Gesù li corregge, sottolineando che c'è anche un altro tipo di cibo da considerare (Giovanni 6).
L'uomo nato cieco è in grado di vedere colui che lo ha curato, ma Gesù lo porta ad un altro tipo di vista per cui egli percepisce Gesù come Figlio dell'uomo (Giovanni 9). I farisei pensano di vedere ciò che è significativo spiritualmente ma sono veramente ciechi finché non riconoscono Gesù (Giovanni 9).
Il capitolo 11 del vangelo di San Giovanni racconta la resurrezione di Lazzaro dai morti. Ancora una volta, c'è un contrasto tra vita e vita spirituale, malattia e malattia spirituale, morte e morte spirituale. I discepoli intendono il riferimento di Gesù a Lazzaro che riposa come un'indicazione che presto starà meglio e Gesù è costretto a sottolineare il fatto che Lazzaro è veramente morto. Marta e Maria ascoltano le parole di conforto e di amore di Gesù, ma ancora sentono che se fosse venuto prima la vita di Lazzaro si sarebbe potuta salvare.
I desideri di cibo, bevanda, compagnia, vista, vita - sono tutte cose naturali e sane nell'animale umano. Ma l'essere umano è fatto per qualcosa di più di queste cose (ciò non significa che l'essere umano dovrebbe cercare di vivere senza di esse). Sembra che sia relativamente facile pensare ad una specie di "secondo ordine" di desiderio in noi, un livello più alto o profondo, in cui il parlare di cibo spirituale, acqua, comunione, vista e intimità con Dio sembra avere un senso . A volte la gente dice persino di avere "esperienze spirituali", parla di qualche conoscenza diretta di questo livello di desiderio e di pienezza.
Ma così come dobbiamo sollevare seri interrogativi su tutti i nostri concetti e immagini di Dio, sottoponendoli alla riflessione e alla critica, dobbiamo sollevare seri interrogativi anche su ogni esperienza che pretenda di essere un'esperienza di Dio, sottoponendola anche alla riflessione e alla critica.
Un mio buon amico nell'Ordine è morto qualche anno fa. Era un uomo piccolo, timido, tranquillo, parlava molto, molto piano, tanto che era proprio difficile sentirlo. Accanto a una specie di semplicità, aveva un'anima grande. Gli ho chiesto una volta se possiamo sapere che crediamo. Rispose immediatamente. "No", disse, "non possiamo sapere che crediamo. Crediamo che crediamo". Poiché la fede è un contatto unico e misterioso con Dio e non è solo un'esperienza nostra, la stessa fede deve ricorrere alla fede. Non è un'esperienza nel senso ordinario della parola. Questo significa che il cristianesimo non è solo una "spiritualità", nel senso in cui tale termine viene popolarmente inteso, riferendosi alla "parte più profonda" o "più alta" degli esseri umani.
Nei testi meravigliosi di Giovanni 4, Giovanni 9 e Giovanni 11, non c'è solo una semplice domanda di bevande e bevande spirituali, di vista e di vista spirituale, della vita e della vita spirituale. Lo spirituale potrebbe ancora riferirsi solo a qualcosa in noi mentre per San Paolo lo spirituale si riferisce innanzitutto allo Spirito Santo che ci unisce con il Padre attraverso il dono della fede in Cristo. In questi passi evangelici, infine, il punto centrale è Gesù stesso e la fede in lui come la porta della vita sulla quale egli sta ammaestrando. Dice alla donna di Samaria "Io che ti parlo, io sono il Messia". E all'uomo cieco "Stai vedendo il Figlio dell'uomo; egli ti sta parlando". E a Marta: "Io sono la risurrezione. Chi vive e crede in me non morirà mai".
La fede è quindi l'"esperienza" centrale cristiana (manca una parola migliore). Poiché la fede ci unisce a Dio come verità, è la garanzia che le nostre aspirazioni spirituali non sono solo la creazione dei desideri dei nostri cuori. Attraverso la fede, sappiamo che ciò che desideriamo è vero e non è solo una bella storia. Ma sappiamo di questo credere solo attraverso il credere. Entriamo nella vita cristiana giungendo a credere in Gesù come Cristo. Non succede che vediamo e poi crediamo. Né crediamo e poi vediamo. Qui, nel viaggio di questa vita, credere è vedere.

sabato 1 aprile 2017

L'AMORE SEGUE LA MORTE

V SETTIMANA QUARESIMA - DOMENICA ANNO A

Nella chiesa di San Francesco ad Arezzo c’è il meraviglioso ciclo di affreschi di Piero della Francesca che illustra la leggenda della Vera Croce. Una parte di questa leggenda è che la croce di Gesù è stata eretta nello stesso luogo in cui Adamo, il primo uomo, era stato sepolto. Una delle scene rappresentate negli affreschi è la morte di Adamo, un quadro fortemente toccante. In piedi attorno al morente sono i membri della sua famiglia, tra cui Eva, sua partner fin dall'inizio. Continuano a vegliare, come tutte le famiglie fanno, prima o poi, vegliando su chi sta morendo e dando piena attenzione a ciò che sta attraversando e a ciò che potrebbe dire prima di lasciarli.
La differenza qui è che questa è la prima morte naturale di un essere umano. Abele era stato ucciso da Caino, ma lì c’era qualcosa di diverso. Nel guardare la morte di Adamo la sua famiglia è testimone, per la prima volta, di tutte le conseguenze del peccato, della fine della vita umana così come noi la conosciamo. Di fronte alla morte, che è sia naturale per un animale della nostra specie che innaturale per un essere con le capacità che noi abbiamo, la famiglia di Adamo è la prima ad essere costernata, perplessa e rassegnata di fronte al più inevitabile degli eventi. Essi spianano la strada a tutti gli esseri umani che sono seguiti dopo di loro e che hanno affrontato le stesse domande: la morte è così definitiva e così innegabile, ma che cos'è?
Sappiamo che la morte significa la fine della vita, di esperienze, di possibilità, di comunicazione, di presenza. A volte la sofferenza che l’ha preceduta è stata così profonda e intensa che la venuta della morte è una 'felice liberazione'. In tali circostanze, siamo più consapevoli della fine della sofferenza che di qualsiasi altro aspetto. Spesso, però, la morte ha un carattere tragico. Arriva troppo presto, arriva troppo dolorosamente, non è rispettosa delle persone, dà un taglio a tutti gli impegni, le relazioni e gli obblighi, fa sparire le persone bruscamente senza lasciare il tempo per addii, devasta le famiglie e gli amanti, genitori e figli, amici e ammiratori. Lascia il cuore dolorante, il posto vuoto, un senso di perdita senza speranza di riempimento, un silenzio senza pietà.
Riuniti presso la tomba di Lazzaro, stanno un'altra famiglia e un altro gruppo di amici. Le principali persone in lutto sono Marta e Maria, le sorelle del morto. Arrivano degli amici, tra cui Gesù di Nazareth, ma arriva troppo tardi. 'Se tu fossi stato qui', Marta gli dice, Lazzaro non sarebbe morto. Gesù avrebbe potuto guarirlo e preservarlo dalla morte. Invece, un segno più grande sta per essere dato, non la guarigione di un uomo dalla malattia, ma la rimessa in vigore di un uomo per la vita.
Paolo descrive Gesù come il Secondo Adamo o l'ultimo Adamo, e qui egli mostra un segno che manifesta che l’opera che è venuto a compiere è la più radicale possibile, un’opera che completa e trascende ciò che il primo Adamo aveva causato. Il modo in cui il mondo è stato strutturato fino ad oggi, in particolare il rapporto tra il peccato e la morte, questo sta per essere del tutto perduto. Il modo in cui l'intenzione originale di Dio era stata disturbata sta per essere superato e una nuova realtà, una nuova vita, una nuova creazione devono essere inaugurate.
Gesù è pienamente presente nell'esperienza umana di quella morte che è una conseguenza del peccato. Egli diventa visibilmente turbato e piange per il suo amico Lazzaro. E lo richiama dalla tomba, dice alle persone in lutto di liberarlo dallo stretto sudario, e di lasciarlo vivere di nuovo liberamente.
L'amore segue la morte. Sta con coloro che sono morti e continua a custodirli anche mentre i loro corpi si stanno corrompendo nella terra. Insieme alla fede, l'amore ora si fonda su una straordinaria speranza, arrivando oltre la morte fino a raggiungere il Signore della Vita. Quello che è successo a Lazzaro non è ancora la resurrezione, ma solo un segno di ciò che stava per accadere nella tomba di Gesù.
Lazzaro è tornato in vita, non è risorto a nuova vita.  È slegato, liberato e restituito al suo popolo. Nella resurrezione di Lazzaro la morte è vinta momentaneamente. Ma nella risurrezione di Gesù la morte è vinta definitivamente. Allora non ci sarà nessun corpo terreno che emerge dalla tomba, ci sarà solo la tomba vuota. Allora non ci sarà nessuna persona resuscitata che necessiti di aiuto per essere slegata e per vivere di nuovo, perché gli abiti da morto saranno messi da parte e la comparsa del nuovo corpo sarà gloriosa. Non ci sarà poi nessun ritorno alla vita come era prima, perché i nuovi cieli e la nuova terra avranno cominciato ad essere creati.
Lazzaro non era la risurrezione, ma testimonia la resurrezione. Gesù è la risurrezione e la vita, e chiunque crede in lui non morirà, ma avrà la vita eterna. L'amore segue la morte e continua a custodire il morto. Quando gli amanti coinvolti sono il Padre Eterno e il suo unico Figlio, allora il Padre, seguendo Lui nella morte, non permette che il suo corpo veda la corruzione, ma lo solleva dalla morte, per non vivere di nuovo questa vita naturale con le sue strutture spietate di peccato e morte, ma per vivere nella gloria della vita risorta, nella nuova creazione introdotta dentro l’esistenza per mezzo dello Spirito Santo.
Dall'affresco di Piero della Francesca sulla morte di Adamo, ad Arezzo, possiamo ora volgerci a contemplare il suo più famoso quadro della risurrezione di Gesù a San Sepolcro, un dipinto complementare a quello di Arezzo, ma in modo molto più potente, molto più sconvolgente, perché sta a significare la fine di questo mondo e l'inizio di una nuova creazione.