Un regalo più grande non potevi farmi, uno zampillo d’acqua fresca dopo giorni e giorni in un deserto che sai bene quanto arido. Sarò all’altezza di questo dono, lo prometto a me stessa.
Etty Hillesum

Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutto il mondo!
Caterina da Siena

mercoledì 30 aprile 2025

SECONDA SETTIMANA DI PASQUA - MERCOLEDI

Letture: Atti 5,17-26; Salmo 34; Giovanni 3,16-21

Allora, c'è o non c'è un giudizio? Sembra che il Vangelo di oggi dia risposte diverse a questa domanda. «Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo...» e «chi crede in lui non sarà giudicato». D'altra parte, «chi non crede in lui è già giudicato» e «questo è il giudizio: che la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce».

Da questo passo del Vangelo è chiaro che il giudizio non è un'azione nuova da parte di Dio, ma è già contenuto, implicito, nelle azioni che Dio ha già compiuto nella missione, nella passione, nel mistero pasquale di suo Figlio. Alla luce della vita del Verbo incarnato, della luce della sua passione e della gloria della sua risurrezione, la verità della nostra vita diventa chiara. Lo si vede nell'esperienza dell'apostolo Tommaso. «Mio Signore e mio Dio», dice. La manifestazione di Gesù risorto con i segni dei chiodi e gli altri segni della sua passione è sufficiente, non c'è bisogno di altre parole.

Questa teologia del giudizio si ritrova nelle opere dell'artista domenicano Beato Angelico. Le sue rappresentazioni del giudizio universale sono tutte simili: Gesù glorificato mostra all'intero universo i segni della sua passione, i segni dell'amore con cui Dio ha tanto amato il mondo. La nostra situazione, la nostra debolezza, il nostro bisogno sono evidenti alla luce di questa gloria. Non servono altre parole di giudizio: in questa luce possiamo vedere la verità della nostra condizione.

In Gesù risorto vediamo l'unità completa e assoluta dell'amore e della verità, della giustizia e della misericordia. È estremamente difficile per noi mantenere questa identità assoluta di verità e amore, di giustizia e misericordia. Ma questo è ciò che vediamo in Gesù. Un altro famoso domenicano, Tommaso d'Aquino, ha una frase molto bella per descrivere il nostro Salvatore. Egli è Verbum spirans amorem, il Verbo che respira Amore. Egli è il nostro giudice perché è Verbo, Verità, Sapienza, Integrità; è il nostro salvatore perché è Amore, Compassione, Misericordia.

Viviamo quindi alla luce di questo Verbo che respira Amore, agendo nella verità affinché sia chiaro che ciò che facciamo è fatto in Dio.

martedì 29 aprile 2025

SANTA CATERINA DA SIENA - 29 APRILE

Caterina da Siena è una delle quattro donne dichiarate dottori della Chiesa, insieme a Teresa d'Avila, Teresa di Lisieux e Ildegarda di Bingen.

Al centro dell'insegnamento di Caterina c'è ciò che dice sulla preghiera. Caterina definisce la preghiera come “la cella della conoscenza di sé”. Almeno pregare significa entrare in questa “cella della conoscenza di sé”. Quindi la preghiera è un luogo dove possiamo conoscere noi stessi. Ma impariamo a conoscere noi stessi sotto una luce particolare perché nella preghiera cerchiamo di essere alla presenza di Dio. Quindi nella preghiera impariamo a conoscere noi stessi alla luce di Dio, vedendo da un lato le debolezze della nostra natura, ma anche la portata del nostro desiderio, un desiderio che arriva fino a Dio.

Ci offre un'immagine da tenere a mente. C'è un ponte, dice, che vogliamo attraversare per arrivare a Dio. Ci sono tre gradini per salire sul ponte e lei identifica questi gradini come diverse parti della croce, o diverse parti del corpo di Cristo appeso alla croce.

Il primo gradino sono i suoi piedi, il secondo il suo fianco e il terzo le sue labbra. Questi rappresentano tre diversi atteggiamenti in noi quando ci relazioniamo a Dio nella preghiera. Se ci avviciniamo con timore, è come se fossimo inginocchiati a baciare i piedi di Gesù. Se ci avviciniamo con amore, è come se fossimo in piedi al suo fianco. E baciare le sue labbra, dice, si riferisce all'unione con Dio che avviene nella preghiera di tanto in tanto, ma per la quale non abbiamo davvero parole.

Caterina dice che nella preghiera impariamo tutte le virtù, specialmente la fede e la carità. Senza fede non pregheremmo affatto, suppongo, ed è la carità, l'amore di Dio, che impariamo nella preghiera. Caterina pensa a noi che preghiamo davanti al Cristo crocifisso, meditando su Cristo sulla croce. Questo le fa pensare al sangue di Cristo, versato per amore del Padre e del mondo. Il sangue di Cristo le fa pensare all'Eucaristia perché è soprattutto quando ci avviciniamo all'Eucaristia che partecipiamo al sangue di Cristo. È qui che entriamo alla presenza di Dio e entriamo nel mistero del suo amore.

Aggiunge un altro dettaglio al quadro che ci dipinge. Accanto al ponte, dice, c'è un ostello per i viaggiatori che desiderano salire sul ponte. Questo ostello è la Chiesa dove l'Eucaristia è offerta ai viaggiatori come sostentamento e sostegno nel loro viaggio. Ogni volta che ci fermiamo qui per partecipare all'Eucaristia, visitiamo questo ostello, veniamo per nutrirci del sangue di Cristo, per stare alla presenza di Dio e sperimentare il suo amore.

Per Caterina la preghiera non è fine a se stessa. È sempre feconda in carità. Questo è il risultato della preghiera per lei. Significa che saremo pronti ad andare in aiuto del nostro prossimo, a praticare la carità in questo senso. Attraverso la preghiera al Dio dell'amore e attraverso il ricevere il sangue di Cristo, diventiamo a nostra volta amanti. Siamo in grado di tendere la mano agli altri per aiutarli, per portare loro l'amore di Dio che abbiamo conosciuto.

domenica 27 aprile 2025

Seconda Domenica di Pasqua

Letture: Atti 5,12-16; Salmo 117/118; Apocalisse 1,9-11a, 12-13, 17-19; Giovanni 20,19-31

Una domanda sollevata dal Vangelo di oggi è: «Come è il corpo umano più perfetto, più glorioso e più bello?». Qualcosa di simile ai corpi degli dei e delle dee delle riviste di moda? Ciò che si presenta ai nostri occhi non sono corpi umani reali, non sono carne e sangue. Non possono mai invecchiare o ruggire, non respirano né sudano, si immagina che siano stati ritoccati con Photoshop per rimuovere lentiggini, nei e altri difetti indelebili. Ma il corpo glorificato del Signore risorto non è così. La sua gloria e la sua bellezza non si trovano in una sorta di perfezione fotogenica.

L'apostolo Tommaso va ringraziato non tanto per aver posto una domanda ragionevole – «vuoi che ci creda senza prove?» – quanto per essere stato il primo cristiano a richiamare la nostra attenzione sulle ferite di Gesù. Il corpo glorificato del Signore risorto non è perfetto come in Photoshop, perché è un vero corpo umano. A volte si dice che il Vangelo di Giovanni è il più spirituale dei Vangeli, ma si potrebbe facilmente descriverlo come il più fisico. Inizia dicendoci che il Verbo si è fatto carne e finisce raccontandoci della carnalità del Signore risorto, di quanto Egli sia una realtà fisica. Il momento in cui la sua carne viene aperta e penetrata dalla lancia del soldato è di grande significato: sangue e acqua sgorgarono, come può testimoniare chi ne fu testimone. Tommaso incredulo è invitato a ripercorrere il percorso della lancia.

I corpi che ci vengono presentati nelle riviste di moda non possono soffrire né sopportare nulla, ma il corpo del Signore risorto è segnato dalle ferite della sua passione. I danni che gli sono stati inflitti nel corso della sua vita e della sua morte, le cicatrici del suo lavoro, gli abusi di cui è stato oggetto: tutto questo può in qualche modo guarire, è persino assunto nella glorificazione del suo corpo, ma rimarrà sempre lì, sarà sempre un dato di fatto della vita vissuta in questo corpo, delle sofferenze da esso sopportate. La storia dell'esperienza di quel corpo in questo mondo è per sempre impressa nella sua carne. Tommaso ci aiuta a vedere che ci sono danni inflitti ai corpi che non possono essere riparati, che ci sono ferite, debolezze e imperfezioni che sono ancora visibili anche nella gloria della Resurrezione. Tommaso prepara Gesù a insegnarci che dalle sue ferite siamo guariti, perché nelle sue ferite Egli è glorioso.

Vulnera significa ferite, vulnerabilità è la capacità di essere feriti. I corpi che sono solo fantasie non possono essere feriti o colpiti in alcun modo, non possono essere toccati e non sono suscettibili alla sofferenza. Nella seconda lettura di oggi, Giovanni si presenta come nostro fratello, perché condivide la nostra sofferenza e la nostra perseveranza. Questo è ciò di cui sono capaci i corpi: soffrire, perseverare, toccare ed essere toccati, influenzare ed essere influenzati. Questo è ciò di cui è gloriosamente capace il corpo glorificato di Gesù: toccare ed essere toccato, influenzare ed essere influenzato. In altre parole, nel suo corpo risorto, e più che mai, egli è capace di amare.

Diventiamo esperti nel conoscere le vulnerabilità degli altri e più intimamente condividiamo la vita, più diventiamo esperti in questo. Possiamo sfruttare e abusare degli altri, approfittando della loro vulnerabilità. Ma è nelle ferite e nella debolezza, nella limitazione e nell'imperfezione, che l'opera della grazia si vede più chiaramente. I discepoli lo capirono presto, Paolo in modo particolarmente evidente, che quando siamo deboli siamo forti, che la grazia di Dio è sufficiente per la nostra debolezza, che la debolezza di Dio è più potente della forza umana e la sua follia più saggia della saggezza umana. I santi che ci sono più utili non sono quelli perfetti come in una foto ritoccata, che proiettiamo in un luogo di perfezione sovrumana, giganti spirituali equivalenti ai giganti fisici delle riviste di moda. I santi che ci sono più utili sono quelli in cui vediamo la grazia di Dio risplendere gloriosamente attraverso la debolezza umana: Agostino, Paolo, Girolamo, Teresa, Teresina.

Dobbiamo quindi guardare alle ferite di Nostro Signore e anche alle nostre ferite. Sono luoghi di sofferenza, ma questo significa che sono luoghi che sollecitano l'amore, perché amare è essere vulnerabili, toccabili, aperti alla condivisione delle sofferenze degli altri. Il corpo del Signore risorto è il corpo più bello, glorioso, affascinante e seducente del creato. E lo è perché nella risurrezione rimane un corpo capace di respirare e di vivere, capace di toccare e di amare. Noi non adoriamo idoli morti, per quanto belli possano sembrare. Adoriamo il Dio vivo e vero che condivide la nostra debolezza affinché noi (anche nella nostra carne) possiamo condividere la sua gloria.

venerdì 18 aprile 2025

VENERDI SANTO


Di fronte alla morte diventiamo tutti muti. Non abbiamo parole adeguate per questa realtà che va al di là della nostra esperienza personale. Il Venerdì Santo più che mai ci troviamo in questa difficoltà: di fronte alla morte del Figlio di Dio, che c’è da dire? Come mai possiamo parlare quando il Verbo stesso è morto?

Ma abbiamo le sue parole, dalla croce: il Vangelo di Giovanni ne ricorda tre, e da queste parole possiamo imparare qualche cosa sul significato di questa morte, avere un'idea di come Gesù stesso abbia sperimentato e vissuto la sua morte.

‘Donna, ecco tuo figlio.’ ‘Donna’ è il titolo che Gesù ha dato a sua madre nel secondo capitolo del Vangelo di Giovanni, alle nozze di Cana. E ci sono tanti legami fra quel miracolo dell’acqua diventata vino e questo momento della morte di Gesù sulla croce. Quello era il primo segno dato da Gesù e la sua morte sulla croce è il suo ultimo segno. Alle nozze di Cana manifestò la sua gloria ai discepoli e sulla croce manifesta la sua gloria al mondo intero. A Cana diceva che non era ancora giunta la sua ora: sappiamo che l’ora della quale parlava è l’ora della sua passione e della sua morte, l’ora di passare da questo mondo al Padre.

‘Ho sete.’ È la seconda parola di Gesù dalla croce. Il miracolo di Cana già ci invita a pensare alla sete più profonda, non soltanto quella dell’acqua o del vino, ma la sete della verità, dell’amore, della giustizia, magari la nostra sete anche di Dio. Gesù parlava spesso di un’acqua che è venuto a darci: ‘Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete’, diceva alla Samaritana. Una volta insegnando nel tempio diceva: ‘Chi ha sete venga a me e beva … chi crede in me … fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno.’ Questo egli disse, Giovanni ci spiega, riferendosi allo Spirito. Adesso, dalla croce, Gesù stesso dice ‘ho sete’. È la sete di un uomo che sta morendo, certo, ma anche la sete del Verbo Incarnato, la sete del Figlio Eterno, il suo desiderio dell’amore del Padre, e che quelli che egli ama possano partecipare di quell'amore, nella comunione dell'amore divino. Quando il soldato colpì il suo fianco, subito ne uscì sangue e acqua. Nel momento in cui Gesù dà tutta la sua vita, tutto il suo potere, tutto il suo amore, la sua sete crea una sorgente di vita spirituale e soprannaturale che è la vita della Chiesa.

‘È compiuto.’ Questa è l’ultima parola di Gesù secondo il vangelo di Giovanni. Tutto è fatto. L’ora è compiuta. L'opera è finita. È rimasto fedele alla volontà del Padre, mostrando al mondo intero la gloria del Figlio unico del Padre, pieno di grazia e di verità. ‘Chinato il capo, consegnò lo spirito.’ È il momento della sua morte, è entrato nelle tenebre della morte. Il mondo è ancora una volta informe e deserto, le tenebre ricoprono l’abisso, ma lo spirito consegnato da Gesù aleggia sulle acque.

mercoledì 16 aprile 2025

MERCOLEDI SANTO


Da bambini chiamavamo questo giorno 'Mercoledì della spia'. È il giorno che Giuda ha speso alla ricerca di Cristo, cercando l'opportunità di tradirlo. In pochi giorni sentiremo di Maria Maddalena, anche lei alla ricerca di Cristo, di colui che hanno portato via. 

Ci piace pensare a noi stessi come a persone 'alla ricerca di Cristo', che cercano di trovarlo e riconoscerlo nelle diverse circostanze della propria vita. Sia Giuda che Maria lo hanno cercato. Perché noi lo stiamo facendo, allora, qual è la nostra motivazione? Che cosa vogliamo fare con lui quando lo troveremo? Speriamo che la nostra motivazione sia più vicina a quella di Maria, cioè che abbiamo imparato ad amare lui, che a quella di Giuda, cioè che vogliamo usarlo, o persino, in qualche modo, 'abusare' di lui.

Nel corso della nostra vita, di tanto in tanto perdiamo Cristo e questa è per noi l'occasione di riflettere, in primo luogo, sul perché lo cerchiamo. Laddove siamo certi che lo troveremo - la creazione, la Bibbia, il vicino di casa, la liturgia, la vita e l'opera della Chiesa, l'Eucaristia - a volte siamo riempiti di un senso della sua presenza, e altre volte questi stessi luoghi ci lasciano nella freddezza. La vita spirituale è una serie di perdite e di ritrovamenti di Cristo. Nel Cantico dei Cantici, grande testo mistico della Bibbia, essa è stata descritta come un gioco di ‘nascondino’, cui piace giocare ai bambini e agli amanti, fingendo di perdere quello che amano in modo da provare l'emozione di ritrovarlo.

Nella nostra vita di fede non sempre questo si percepisce come un gioco. E si gioca per davvero, mentre lo perdiamo e troviamo ripetutamente. Ma ciò avviene affinché scopriamo il motivo per cui lo stiamo cercando. Come i discepoli nel Vangelo di oggi, non siamo sicuri di non essere proprio noi coloro che lo tradiranno. Lo cerco perché lo amo o per rassicurare me stesso riguardo qualcosa? Lo cerco perché voglio semplicemente essere con lui o perché voglio usare in qualche modo lui, la sua vita, il suo insegnamento, la sua potenza, per scopi che non sono coerenti con la sua vita e il suo insegnamento o il suo potere?

Il perdere e il ricercare e il ritrovare continueranno finché non impariamo questo: è Cristo che ci sta cercando e tutti noi abbiamo bisogno di sapere come riceverlo per dargli il benvenuto, per aprire la porta a lui che bussa, per essere grati e gioiosi per il suo amore salvifico.

lunedì 14 aprile 2025

Lunedi Santo

Letture: Isaia 42,1-7; Sal 26; Giovanni 12,1-11

La prima metà della Settimana Santa ci offre una liturgia della Parola in tre parti. Ogni giorno leggiamo uno dei “Canti del Servo” di Isaia (il quarto viene letto durante la liturgia del Venerdì Santo). Le letture del Vangelo di questi giorni sono incentrate su Giuda e sul suo tradimento, mettendo a confronto il suo comportamento nei confronti di Gesù con quello degli altri membri del loro circolo, Maria di Betania (lunedì), Pietro (martedì) e gli Undici (mercoledì). In tre scene, quindi, questo primo atto della Settimana Santa ci presenta un senso sempre più profondo di tragedia, attraverso atti di amore, delusione, dubbio e tradimento.

Maria è dalla parte della luce. Lei capisce - così dice Gesù - la sua via verso la gloria, il tipo di Messia/Servo che egli deve essere. È pronta, almeno in parte, per l'ora della sua gloriosa regalità sulla croce. Giuda è sempre più sotto il potere delle tenebre, incapace di capire e perdendo il senso dell'amore per Gesù.

Il profumo di Maria riempie tutta la casa. Questo sembra essere il modo in cui Giovanni dice: «ovunque sarà predicato il Vangelo, sarà raccontato ciò che lei ha fatto in memoria di lei». Il profumo del suo gesto accompagnerà la predicazione del Vangelo ovunque.

La caratteristica più sorprendente del suo gesto è la sua stravaganza: è esagerato, inutile, dispendioso (come indica Giuda, con una certa giustizia). Ma anticipa la stravaganza di cui saremo testimoni nella seconda metà della Settimana Santa, la stravaganza dell'amore di Dio riversato nel sacrificio di Cristo. L'amore stravagante di Maria per Gesù continua a rafforzare la fede dei credenti, perché ci aiuta ad apprezzare l'amore stravagante che è la salvezza del mondo.

Le esigenze della giustizia sono stravaganti, come Maria comprende. Ci sono molti riferimenti alla giustizia nelle letture di oggi. A volte la pensiamo come fredda e cieca, severa e spietata. Ma la giustizia di cui Gesù è il sole è una giustizia che ha raggiunto il cuore. È una questione di parole e di azioni che hanno origine in un cuore che ama ed è misericordioso. Maria mostra oggi il suo cuore come Gesù mostrerà il suo venerdì, il cuore del nostro «Dio più umano». Egli non ha dimenticato i poveri, ma li ricorda in ogni passo della sua via dolorosa. Diventa il più povero di tutti, sperimentando la povertà più radicale dell'umanità, affinché noi possiamo diventare ricchi di lui, unti della sua misericordia infinita, del suo perdono costante, del suo amore eterno.

domenica 13 aprile 2025

Domenica delle Palme Anno C

Letture: Processione: Luca 19:28-40; Messa: Isaia 50:4-7; Salmo 22; Filippesi 2:6-11; Luca 22:14-23:56

Quando muore una persona cara, facciamo tesoro dei ricordi dei suoi ultimi giorni e delle sue ultime ore. I diversi membri della famiglia possono ricordare cose diverse come le ultime parole del morente. Le ultime parole di mio padre per me non sono necessariamente quelle care a mia madre o ad altri membri della famiglia.

I quattro vangeli ci riportano sette ultime parole di Cristo, dette dalla croce. Matteo e Marco riportano una sola parola: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”. È un grido di desolazione e tuttavia stranamente confortante per tutti coloro che sperimentano quella buia notte spirituale in cui Dio sembra morire. È anche l'inizio del Salmo 22, che si apre nell'angoscia ma si chiude nella fiducia e nella speranza.

San Giovanni riporta tre ultime parole: “Donna, ecco tuo figlio”, “Ho sete” e “È finita”. Anche San Luca riporta tre ultime parole ed è su queste che voglio soffermarmi perché è il racconto di Luca della Passione che leggiamo quest'anno.

Luca ci dice che Gesù, sulla croce, chiese al Padre suo di perdonare i suoi carnefici: “Padre perdona loro, non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Gesù, che era vissuto tra i peccatori, è morto tra i peccatori. Coloro che lo inchiodarono alla croce, lo picchiarono, lo spogliarono e lo derisero erano suoi nemici. Volevano vederlo morto. Ora doveva mettere in pratica ciò che aveva predicato con tanta forza: amare i nostri nemici, pregare per loro e perdonarli.

Alcuni primi manoscritti del Nuovo Testamento non riportano questo versetto del Vangelo di Luca. È come se alcuni primi cristiani temessero che Gesù potesse sembrare troppo indulgente nei confronti dei peccatori, troppo tollerante nei confronti del loro comportamento. Ma come può essere troppo indulgente? Non aveva forse insegnato loro che Dio è un Padre misericordioso, il cui perdono viene offerto indipendentemente da ciò che le persone hanno fatto?

San Paolo dice: “Nessuno dei dominatori di questo tempo ha capito... perché se avessero capito non avrebbero crocifisso il Signore della gloria” (1 Corinzi 2.8). I peccatori non sanno mai veramente cosa stanno facendo. Non capiamo veramente che tipo di offesa sia il peccato contro l'amore e la bontà di Dio. Forse un giorno ci verrà rivelato. Il vescovo Fulton Sheen ha scritto che è la nostra ignoranza di quanto Dio sia buono che ci giustifica per non essere santi.

Dalla folla radunata sul Calvario esce una voce con un tono diverso dagli altri, una voce che chiede perdono. L'uomo che ricordiamo come il buon ladrone, crocifisso accanto a Gesù, fa uscire da lui quelle meravigliose parole: “Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,43). Il ladro non chiede tanto. Dice solo: “Signore, ricordati di me quando verrai nel tuo regno”. Forse, in futuro, sarà possibile che io sia salvato... questo è quanto osa sperare. Oggi”, risponde Gesù, ‘perché non oggi?’. Anche noi possiamo essere diffidenti, e l'esperienza può averci portato ad essere riservati nella nostra speranza, ma viviamo già in questo “oggi” di cui parla Gesù. Ora è il tempo favorevole, questo è il giorno della salvezza” (2 Corinzi 6,2).

L'unica voce che riconosce Gesù durante tutta la sua passione è quella del buon ladrone. Fulton Sheen dice che quest'uomo che ha vissuto da ladro è morto da ladro perché ha rubato il Paradiso!

Poco prima di morire Gesù gridò a gran voce: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” e con queste parole esalò l'ultimo respiro (Lc 23,46). Troviamo queste parole nel Salmo 31, un'antica preghiera ebraica per chi soffre ed è messo alla prova. Gesù parla ancora una volta al Padre, ma ora è come se fosse il figliol prodigo che si volta verso casa. È esausto e spossato. Ha sprecato le ricchezze del Padre per i peccatori, riversando la misericordia e la bontà divina senza freni, senza limiti, senza riserve. Li ha amati fino alla fine, in modo folle e stravagante, e per lui è giunto il momento di tornare a casa.

Gesù conclude così la sua vita di obbedienza alla volontà di Dio. Ha bevuto il calice che il Padre gli ha chiesto di bere (Lc 22,42) e l'ha finito fino all'ultima goccia. Nella morte, come nella vita, non è altro che il servo di Dio.

sabato 12 aprile 2025

Quaresima Settimana 5 Sabato

Letture: Ezechiele 37:21-28; Salmo: Geremia 31:10-13; Giovanni 11:45-56

La lettura di Ezechiele riassume i modi in cui il popolo d'Israele sapeva che il Signore era ancora con loro, che era ancora dalla loro parte. Aveva dato loro una terra e ora, dopo l'esilio, dovevano esservi restituiti. Li aveva tratti dalle nazioni per farne un unico popolo e ora lo avrebbe fatto di nuovo. Aveva dato loro leggi e statuti che avrebbero garantito la loro fedeltà all'alleanza. Avrebbe dato loro un capo, un nuovo Davide che sarebbe stato sia principe che pastore. Avrebbe abitato con loro in un santuario, in un nuovo tempio, in cui la sua gloria sarebbe stata ancora una volta presente.

Questi doni - la terra, l'essere una nazione, le leggi e gli statuti, un capo, un santuario - rendevano reale l'alleanza per cui Israele era il popolo di Dio e il Signore era il Dio di Israele. È in questi doni che si vede la vita comune dell'alleanza.

I capi ebrei temevano che Gesù fosse una minaccia per tutto questo. Temevano che i Romani sarebbero venuti e avrebbero portato via la loro terra e distrutto la loro nazione. Temevano un'altra caduta di Gerusalemme, un'altra perdita di tutto, un nuovo esilio. E per ragioni che rimangono poco chiare, temevano che l'insegnamento di Gesù l'avrebbe provocato. Meglio”, profetizzò il sommo sacerdote Caifa, ‘che un solo uomo muoia per il popolo piuttosto che l'intera nazione vada perduta’.

Paradossalmente, Caifa diede ai credenti in Gesù una delle dichiarazioni più potenti sul significato della sua morte: egli morì per la nazione e per riunire in una sola i figli di Dio dispersi. In altre parole, è morto per tutti. Paradossalmente, fu proprio attraverso questa morte che si realizzarono le promesse custodite da Ezechiele e dagli altri profeti.

Da un certo punto di vista potrebbe sembrare che i timori di Caifa e degli altri fossero giustificati: poco dopo il Tempio fu distrutto, la terra fu perduta e la nazione fu dispersa. Ma prima di questo, e separatamente da esso, fu stabilita una nuova terra che non era più geografica ma spirituale (per un culto di Dio in spirito e verità). Fu istituito un nuovo santuario che non era più un edificio, ma il corpo di Gesù da cui sgorgavano acque salvifiche. Nasce una nuova nazione che è la Chiesa, composta da ebrei (la prima nazione) e gentili (i figli di Dio dispersi). È sorto un nuovo leader che è allo stesso tempo principe e pastore. L'alleanza eterna di pace fu sigillata nel suo sangue. È stata data una nuova legge che non ha dissolto l'antica, ma l'ha portata alla perfezione, le cui esigenze (il grande comandamento) sono state scritte direttamente sul cuore dell'uomo.

Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”. Questa comunione, questa vita condivisa, è sempre stata l'obiettivo dell'alleanza. Attraverso molte vicissitudini, attraverso prove ed errori, attraverso trionfi e perdite, attraverso tempi di fedeltà e tempi di apostasia - il desiderio di un sigillo definitivo di questa alleanza persisteva.

Verrà alla festa di Pasqua?” è la domanda con cui si conclude la lettura del Vangelo di oggi. L'Agnello sarà presente alla festa? Come potevano sapere che questo antico rituale, e l'alleanza che esso ricordava, si sarebbero compiuti e trasformati al di là di ogni immaginazione? Così che ora, nei prossimi giorni, duemila anni dopo, milioni di persone in tutto il mondo leggeranno della terra e del tempio, della legge e della nazione, dei sacrifici e delle promesse, e vedranno queste cose come promesse anche a loro.

La promessa rimane valida e vale in ogni momento per tutti gli uomini e le donne: “Trasformerò il loro lutto in gioia, li consolerò e li allieterò dopo i loro dolori”.

venerdì 11 aprile 2025

Quaresima Settimana 5 Venerdì

Letture: Geremia 20,10-13; Salmo 18; Giovanni 10,31-42

Torniamo al confronto tra l'esperienza di Geremia e quella di Gesù. Ne abbiamo sentito parlare qualche giorno fa ed eccolo di nuovo. Ci sono molte somiglianze, ma anche differenze notevoli. Entrambi sono predicatori della Parola di Dio. Entrambi cercano di servire la causa della verità e della giustizia. Entrambi vengono traditi o abbandonati dagli amici e lasciati soli a subire la persecuzione dei loro nemici.

La differenza è evidente: mentre il Signore combatte come un potente campione accanto a Geremia, il Signore combatte come un potente campione in Gesù. Credete alle opere, dice Gesù nel Vangelo di oggi, affinché possiate realizzare e comprendere “che il Padre è in me e io sono nel Padre”. Dio era in Cristo e ha riconciliato il mondo con sé”, dirà poi San Paolo. Una seconda differenza sorprendente, presumibilmente conseguente alla prima, è che il comprensibile grido di vendetta di Geremia non viene ripetuto sulle labbra di Gesù. Geremia prega: “Fammi assistere alla vendetta che farai su di loro”. È una preghiera molto comprensibile. Papa Francesco ha detto che chi ha messo le mani su sua madre può aspettarsi un pugno da lui.

Il modo in cui la potenza divina opera in Gesù è diverso. Non si tratta di una semplice correzione moralistica delle comprensibili reazioni di Geremia e Francesco. Non si tratta semplicemente di dire, con le parole di Gesù, che se subisci oppressione, persecuzione e violenza, invece di dare un pugno al colpevole, cerca di “porgere l'altra guancia”. Sta dicendo che la vendetta esercitata da Dio - le cui vie non sono le nostre vie e i cui pensieri non sono i nostri pensieri - avrà una forma radicalmente diversa dalla vendetta esercitata dagli esseri umani. Attraverso le opere di Gesù, tutto viene portato in una nuova dispensazione in cui tutte le relazioni umane saranno trasformate.

Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Questa sarà la preghiera di Gesù riguardo ai suoi persecutori, la sua unica osservazione su di loro dalla croce. Ci fa intravedere non la debolezza divina di fronte alla violenza umana, ma la potenza divina di fronte alla violenza umana. Poiché Dio è amore e la sua azione caratteristica è quella di creare, la vendetta di Dio, come qualsiasi altra azione di Dio, deve avere queste caratteristiche: non può che essere amorevole e creativa. E così Dio si vendicherà dei suoi nemici che hanno ucciso suo Figlio risuscitando suo Figlio dai morti, stabilendo per tutti gli uomini e le donne, anche per i nemici che lo uccidono, un regno di pace, giustizia, riconciliazione e amore. Immaginate un mondo in cui la riconciliazione diventi possibile, il perdono naturale e i nuovi inizi prendano il posto di un castigo senza fine.

Molti cominciarono a credere in lui”, così si conclude la lettura del Vangelo di oggi. È un inizio e se possiamo dire anche solo questo - ho cominciato a credere in lui - stiamo facendo bene. Siamo sulla strada giusta. Attraverso la fede in lui, lo Spirito di Gesù viene ad abitare anche in noi, non solo per lottare accanto a noi, ma per lavorare dentro di noi, pregando in noi quando non sappiamo pregare, riversando l'amore di Dio nei nostri cuori, facendoci diventare “dei”, creature che partecipano alla natura divina.

giovedì 10 aprile 2025

Quaresima Settimana 5 Giovedì

Letture: Genesi 17,3-9; Salmo 105; Giovanni 8,51-59

Nella prima lettura Dio sembra un amante entusiasta, che implora il suo vestito con colui che desidera sia con lui. Viviamo insieme, io e te, qui in questo luogo. Saremo fecondi e per molte generazioni e potremo fare la nostra casa insieme qui. Sarà meraviglioso e saremo felici insieme”. Alla fine della lettura, quasi come un ripensamento, aggiunge “naturalmente anche voi dovete mantenere l'alleanza”.

Ricorda i commenti di Papa Francesco nei primi giorni del suo pontificato, secondo cui ci stancheremo di chiedere misericordia prima che Dio si stanchi di mostrare misericordia. Dio sembra più impegnato e più coinvolto nel lavoro di stabilire questa alleanza di quanto non lo siano gli esseri umani che devono essere i partner della relazione.

Abramo ci ricorda sempre l'alleanza e la fede necessaria per essere fedeli all'accordo che Dio ha stipulato con il suo popolo. Abramo compare nella discussione tra Gesù e gli ebrei nella lettura del Vangelo di oggi. Adamo, Noè, Abramo, Mosè, Davide, Gesù: ci sono questi punti alti che segnano il cammino dell'alleanza attraverso i secoli e le pagine della Bibbia. Ogni momento in cui l'alleanza viene sancita e rinnovata implica un maggiore coinvolgimento di Dio con il popolo, un suo avvicinamento, una partecipazione sempre più intima alla sua vita. E ogni momento di questo tipo obbliga Dio, per così dire, a rivelare di più su se stesso.

Quando Gesù dice “prima che Abramo fosse, io sono”, sta chiaramente facendo l'affermazione più esplicita sulla sua missione di Messia e sulla sua natura di Figlio di Dio. Egli usa il nome divino per parlare di sé, il che spiega la feroce reazione dei suoi uditori. Poiché egli è “Io sono”, è il cuore e il fondamento dell'alleanza stabilita con Abramo. È il pretendente che cerca di entrare in relazione con la sua amata, che sta alla base dell'alleanza, “prima” di essa, l'Unico.

Crediamo che l'alleanza stabilita in Gesù sia quella finale e definitiva, la nuova ed eterna alleanza. Dio non avrebbe potuto essere più coinvolto nella vita e nella storia del suo popolo di quanto lo sia stato in Gesù. E Dio non può rivelare di sé più di quanto abbia fatto aprendoci il suo cuore nel mistero pasquale di Gesù.

Siamo chiamati ad essere partecipi di questa storia, interlocutori di Dio nel dispiegarsi della sua relazione con gli esseri umani. È una storia le cui origini si perdono nella notte dei tempi - prima che Abramo fosse - ma è una storia stabilita nel momento eterno presente - Io sono. Chiunque mantenga questa parola, la promessa dell'alleanza, non assaggerà mai la morte perché, come diceva il filosofo francese Gabriel Marcel, dire “ti amo” significa dire “non morirai”. E Dio ci dice: “Ti amo” e voglio stabilire con te un patto eterno.

mercoledì 9 aprile 2025

Quaresima Settimana 5 Mercoledì

Letture: Daniele 3:14-20, 91-92, 95; Daniele 3:52-56; Giovanni 8:31-42

Oggi abbiamo un'altra serie di letture che relativizzano le strutture umane di potere, autorità e giustizia. I tre giovani nella fornace ardente sono un altro “tipo” di Cristo, salvati dall'intervento divino perché sono servi del vero Dio e rifiutano di adorare qualsiasi altro dio. Sono in contrasto con Nabucodonosor e con il suo sistema di potere, autorità e giustizia, proprio come tante migliaia di martiri nel corso dei secoli che hanno dato la vita piuttosto che servire o adorare divinità diverse dal Signore, il Dio di Israele e il Padre di Gesù, l'unico Dio vivente e vero.

Una delle affermazioni più spesso citate del Vangelo si trova nei commenti di Gesù su questo stesso argomento: “la verità vi farà liberi”. Nella sua vita di San Domenico, il domenicano inglese Beda Jarrett (morto il giorno di San Patrizio del 1935) mostra come Domenico abbia confermato ai suoi primi seguaci la verità di questo principio evangelico: cercando la verità nel modo in cui Domenico insegnava loro (e in questo egli è semplicemente “dominicus”, l'uomo del Signore), i primi domenicani non “trovarono” la verità (perché chi può contenere Dio?), ma divennero liberi, trovarono una nuova libertà di gioia e di amore nel loro servizio alla Parola di Dio che è la verità.

È importante citare la dichiarazione integrale di Gesù: “Se rimanete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Questa libertà che viene dalla verità si trova rimanendo nella parola di Gesù. Significa vivere come suoi discepoli, seguire la sua strada, vivere nella propria vita il modo di amare il Padre e il mondo che è il cuore della vita e della missione di Gesù.

Abbiamo visto Gesù appellarsi a Mosè, insegnando ai suoi interlocutori che la fedeltà a Mosè deve portarli alla fede in lui. Ora si appella ad Abramo, insegnando loro che la fedeltà ad Abramo deve portarli alla fede in lui. Non è sulla base di qualche esegesi esoterica che argomenta in questo modo con loro, ma semplicemente sulla base della presenza del Padre nella vita di Mosè e nella vita di Abramo. Mosè è tuo padre? Abramo è tuo padre? C'è uno che è “il Padre”, dice Gesù, il Padre di Mosè e il Padre di Abramo, e anche il Padre mio, colui che mi ha mandato e grazie al quale sono qui.

Gesù sta lottando per convincerli ad alzare lo sguardo oltre Mosè e oltre Abramo, oltre le loro tradizioni e leggi, oltre le loro strutture di potere, autorità e giustizia, per guardare in alto, oltre e dentro di loro, verso Colui che sostiene tutte le cose, che conferma ogni bontà, che stabilisce ogni verità. È Lui, la “Prima Verità” come la chiamerà Tommaso d'Aquino, che libera, che trascina le nostre menti e i nostri cuori attraverso le preoccupazioni contingenti e passeggere di questo mondo, per riposare in Lui, nel suo potere, nella sua autorità, nella sua giustizia - la realtà che vedremo rivelata nella più grande delle opere del Figlio, la sua gloriosa risurrezione dai morti. Lì c'è la verità che aspetta di essere rivelata. Lì c'è il luogo della vera libertà.

Rimaniamo con Gesù, vivendo come suoi discepoli, per conoscere questa verità ed entrare già nella libertà che deriva dalla nostra sete di essa.

martedì 8 aprile 2025

Quaresima Settimana 5 Martedì

Letture: Numeri 21:4-9; Salmo 102; Giovanni 8:21-30

La nascita di cui siamo testimoni ha molte conseguenze. Una di queste è la vita nuova - la vita eterna - per coloro che credono in Cristo, per coloro che credono che egli è, come dice due volte in questo passo del Vangelo, l'“Io sono”. Egli è il Signore, la presenza di Dio, colui che rivela il Padre al mondo.

La salvezza dell'umanità e la guarigione del mondo: queste sono le conseguenze di questa nascita, le cui doglie si fanno sempre più forti man mano che attraversiamo la quinta settimana di Quaresima. E queste cose avvengono insieme a un'altra conseguenza di infinita importanza: ci viene data una nuova comprensione di Dio. Colui che Gesù chiama “il Padre” ci viene fatto conoscere e ne intravediamo le sembianze.

Il contrasto tra due immagini di Dio nelle letture di oggi lo evidenzia molto chiaramente. Nel Libro dei Numeri Dio è vendicativo e punitivo, un “grande uomo” la cui pazienza è limitata, che parla il linguaggio del peccato e della punizione, che è intrappolato, sembra, nella stessa dinamica ricorrente del popolo. Se essi sono ingrati e si lamentano, egli li punisce e questa volta lo fa inviando tra loro dei serpenti mortali.

Naturalmente siamo solidali con il popolo che cerca di capire il modo in cui Dio opera nella sua vita. Dio continua a comportarsi come un “grande uomo” instabile, a volte sentimentale nei confronti del suo popolo e a volte arrabbiato con esso. Qui, quando anche loro mostrano segni di pentimento, lui si pente immediatamente del male che sta facendo loro: si baciano e fanno pace e la storia continua.

Gesù associa anche il peccato alla morte. Parla di persone che muoiono a causa del peccato, o meglio di persone che muoiono nei loro peccati. Ma non dice che il Padre li vuole uccidere. Il peccato porta con sé la morte. Il peccato è esso stesso una sorta di morte. "Chi ci libererà da questo corpo di morte?", grida San Paolo, "grazie a Dio per Gesù Cristo, nostro Signore."

Il serpente di bronzo, per una sorta di magia simpatica, guarisce le persone che sono state morse dai veri serpenti. Gesù innalzato sulla croce è una sorta di serpente di bronzo che prende in sé tutto il potere del peccato, del male e della morte, in modo che chiunque venga a credere appartenga a lui dove è in compagnia del Padre. Credere nel Figlio dell'uomo innalzato equivale a guardare il serpente di bronzo.

Gesù ci prega anche di capire com'è il Padre, che non è il dio primitivo delle religioni tribali, né un idolo senza vita. È lui che ha mandato Gesù e questo ci dice già molto di lui. È colui che ha mandato Gesù non per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato attraverso di lui.

Il nostro ego ci farà concentrare sulle conseguenze per noi di questa nascita. Ma le conseguenze più importanti sono semplicemente la rivelazione del Padre (com'è Dio: solo il Figlio può insegnarcelo) e la rivelazione dell'unione tra il Padre e il Figlio (non faccio nulla da solo, dico solo ciò che il Padre mi ha insegnato, è con me e faccio sempre ciò che gli piace).

Cerchiamo di dimenticare noi stessi e di pensare solo in seconda battuta alle conseguenze per noi di questa nascita in cui Gesù sta entrando. Cerchiamo invece di tenere la mente e il cuore fissi su di lui, il servo amorevole, il figlio amato, colui che ci sta insegnando che la vita di Dio è l'amore, l'unità di Padre, Figlio e Spirito Santo. Come il peccato è già una sorta di morte, così vedere questo mistero divino è già vita eterna. "Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e Gesù Cristo che hai mandato" (Gv 17,3).

Non si tratta più semplicemente del fatto che Dio osserva la terra dal suo cielo. Ora ci guida nel nostro viaggio da questo mondo verso il regno dell'amore eterno. Un viaggio che lo porterà al Getsemani e al Golgota prima di portarlo alla Pasqua e alla Pentecoste.

lunedì 7 aprile 2025

Quaresima Settimana 5 Lunedì

Letture: Daniele 13:1-9, 15-17, 19-30, 33-62; Salmo 23; Giovanni 8:12-20

È un giusto tentativo di assicurare un giusto processo e un'equa procedura, quello di insistere, come faceva la legge di Mosè, sulla deposizione di due o tre testimoni (Deuteronomio 19:15-21). Era un tentativo di garantire che non ci potessero essere errori giudiziari. Naturalmente le cospirazioni per incastrare le persone e farle processare ingiustamente erano sempre possibili, finché le persone erano disposte a riunirsi per testimoniare il falso. Uno dei principali comandamenti della legge, e una delle strutture essenziali di ogni società giusta, era che le persone non testimoniassero il falso ma dicessero la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità.

Sappiamo per esperienza che nessun sistema di giustizia è perfetto e che nessuna combinazione di esseri umani coinvolti nell'amministrazione di un sistema di giustizia lo farà perfettamente. È uno degli argomenti più forti contro la pena capitale: per quanto buono possa essere il sistema di giustizia, esso è sempre amministrato da esseri umani e quindi soggetto a distorsioni e corruzione. Nel caso della pena capitale non si può tornare indietro.

Negli ultimi giorni di Quaresima ci vengono presentate figure che vengono trattate ingiustamente anche quando il sistema di giustizia viene seguito correttamente. Susanna è una di queste figure e ne parliamo nella lunga ma drammatica prima lettura di oggi. Fin dai primi tempi della Chiesa è stata un “tipo di Cristo”, prefigurando nella sua esperienza ciò che sarebbe accaduto a Gesù in seguito. È necessario l'intervento divino, che opera attraverso Daniele, per illuminare la verità della situazione. In questo caso, la testimonianza di due testimoni corrotti sarà sufficiente a condannare Susanna, a meno che il Signore non intervenga per far sì che una giustizia più alta - la giustizia della verità piuttosto che quella della semplice evidenza - trionfi nel suo caso.

Negli ultimi giorni della vita di Gesù ci si concentra molto sulla giustizia del processo che ha ricevuto. È stato facile per le autorità che volevano distruggerlo trovare qualcuno della sua cerchia che lo tradisse ed è stato facile per loro trovare altri che testimoniassero contro di lui. Quando i falsi testimoni si presentano e parlano contro di lui, riportano le sue parole, ma non vedono il vero significato di quelle parole. Ha detto che avrebbe distrutto il Tempio e lo avrebbe fatto risorgere in tre giorni”. Ci dice di non pagare il tributo a Cesare e che lui stesso è un re”. Sono confusi, ci dice il Vangelo di Marco, ed è comprensibile, dato che Gesù sta cercando di condurre le persone oltre le loro normali categorie di pensiero, aspettative e comprensione.

Chi saranno i testimoni che lo rivendicheranno? Nei passi del Vangelo di Giovanni che leggiamo in questi giorni si parla molto di questa domanda. Vediamo il tipo di giudice non giudicante che Gesù è: il suo trattamento della donna presa in adulterio è semplicemente il momento più potente di questa rivelazione. Ma che dire di Gesù stesso? Chi gli renderà testimonianza? Chi potrà rivendicare la giustizia della sua causa? Chi confermerà la verità del suo insegnamento?

Non può che essere il Padre, dice Gesù, è lui che mi rivendica, che mi testimonia, che conferma la verità di ciò che dico. Il Padre sa da dove vengo e dove vado, dice Gesù, perché è Lui che mi ha mandato. Così il requisito della Legge, che prevedeva la deposizione di due testimoni, è soddisfatto: il Padre e Gesù possono testimoniare chi è, la sua origine e la sua missione. Ma potremmo anche simpatizzare con la confusione dei testimoni, anche con i discepoli che faticano a capire, se la logica dell'argomentazione di Gesù nella lettura del Vangelo di oggi non è immediatamente chiara.

Abbiamo bisogno di più luce se vogliamo avere una speranza di capire ciò che Gesù sta dicendo qui. Crediamo che la luce sia stata data negli eventi che celebreremo nei prossimi giorni. Almeno per il momento, questo è chiaro: Gesù va avanti con la forza del suo rapporto con il Padre. Se tutto il resto cade, come alla fine cadrà, questo resterà in piedi. È sicuro della presenza del Padre ed è anche certo che, quando verrà l'ora, il Padre darà testimonianza al Figlio in modi che solo la potenza creatrice di Dio può ancora immaginare.

domenica 6 aprile 2025

Quaresima Settimana 5 Domenica (Anno C)

Letture: Isaia 43:16-21; Salmo 125; Filippesi 3:8-14; Giovanni 8:1-11

Fin dall'inizio, la Chiesa, la comunità dei credenti in Gesù, è stata turbata da questa storia. Ne abbiamo prova nei primi manoscritti dei vangeli. Questa storia ha vagato per il Nuovo Testamento prima di stabilirsi all'inizio di Giovanni 8. Le autorità più antiche l'hanno addirittura omessa. Le autorità più antiche lo omettono, altre lo aggiungono qui, o dopo Giovanni 7:36, o dopo Giovanni 21:25, o anche nel Vangelo di San Luca, dopo Luca 21:38. Non solo il testo si sposta da un luogo all'altro in modo insolito, ma ci sono anche differenze, come ci aspetteremmo, nel testo.

Che cosa significa? Sembra che i primi cristiani fossero più o meno come noi, incerti su come mostrare la misericordia senza sembrare indulgenti, su come illustrare la giustizia senza sembrare crudeli e privi di compassione. Possiamo notare di sfuggita che la parola di Gesù dalla croce, “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”, ha subito un trattamento simile prima di entrare a far parte del racconto della passione di Luca: i credenti non erano sicuri. Gesù potrebbe sembrare troppo morbido, tollerante nei confronti del male?

Dobbiamo quindi essere grati allo Spirito Santo che ha trovato il modo di inserire questa storia nel Vangelo di Giovanni, nonostante le perplessità dei credenti. È arrivata fino a noi nonostante i dubbi dei credenti e grazie a Dio è arrivata.

Il trattamento della donna colta in adulterio ci ricorda qualcosa di gravemente sbagliato negli esseri umani. Abbiamo interesse a pensare ai peccati degli altri e, ancora di più, non esitiamo a usare i peccati degli altri per servire i nostri scopi e programmi. Le persone che la portano davanti a Gesù non hanno un vero interesse per la donna, la stanno usando per intrappolarlo. Ma non sono all'altezza della combinazione di intelligenza e amore che vediamo in Gesù, si sciolgono miseramente davanti alla combinazione di giustizia e misericordia che vediamo in lui. Uno dei Padri della Chiesa ha scritto: “quam dulcis est Dominus per mansuetudinem et rectus per veritatem”, “quanto è dolce il Signore nella bontà e quanto è giusto nella verità”.

Uno dei luoghi in cui questo racconto è finito nei primi manoscritti è dopo Giovanni 21:25, dopo la risurrezione. E qui si parla molto di novità e della ri-creazione che è il perdono, la riconciliazione, la nuova creatura resa giusta davanti a Dio grazie all'amore e all'obbedienza del Figlio. Le altre letture della Messa sostengono questa visione: Io faccio un'opera nuova” (Isaia), ‘dimentico del passato e proteso verso ciò che deve ancora venire’ (Filippesi). L'incipit del racconto ci porta verso la cosmologia della risurrezione: “era mattino presto”, l'incontro avviene all'alba di un nuovo giorno. Il dito di Dio scrive qualcosa nella polvere, mentre la mano di Dio tira fuori dalla polvere il primo essere umano.

La trappola di ferro tesa dai suoi nemici e dagli aguzzini della donna sembra non lasciare alcuna via d'uscita, alcuna risoluzione. Ma l'intelligenza, l'amore, la giustizia e la bontà di Dio trasformano la situazione. Può essere un modello per noi quando pensiamo di avvicinarci a Cristo nel sacramento della riconciliazione in questo tempo di Pasqua. Non importa quali siano le “trappole di ferro” che legano i nostri cuori o paralizzano le nostre vite, Dio è in Cristo che riconcilia il mondo a sé, attraverso la grazia del sacramento che fa scaturire libertà e vita nuova.

sabato 5 aprile 2025

Quaresima Settimana 4 Sabato

Letture: Geremia 11,18-20; Salmo 7; Giovanni 7,40-53

Siamo entrati nella seconda parte della Quaresima. Ci siamo lasciati alle spalle la preoccupazione per noi stessi e per i nostri sforzi di pentimento. La preoccupazione ora è Gesù e la crescente opposizione a lui. Le prime letture ci parlano di persone innocenti ingiustamente perseguitate - Giuseppe, Geremia, Susanna, l'uomo giusto di Sapienza 2 - mentre le letture del Vangelo di San Giovanni ci mostrano come la pressione sui capi del popolo stia aumentando, mentre si intensificano le domande sull'identità di Gesù.

La lettura del Vangelo di oggi termina in modo strano: “Poi ognuno andò a casa sua”. Sembra un dettaglio insignificante, come se si dicesse “poi andarono a casa per la cena”. C'è un contrasto tra l'ordinarietà di questo ritorno a casa e il significato di ciò di cui avevano parlato e discusso.

Una delle domande principali per ora è questa: dove si trova la casa di Gesù? Alcune profezie dicevano che sarebbe venuto da Betlemme, mentre altre sembravano indicare che sarebbe stato un Nazareno. I vangeli forniscono ragioni per credere che egli provenga da ciascuno di questi luoghi: Betlemme è la casa in cui è nato, Nazareth quella in cui è cresciuto.

Ma c'è un crescente contrasto tra questi sensi ordinari di “casa” - la comodità di sapere da dove vengono le persone ci dà il conforto di conoscere qualcosa della loro identità - e la sensazione che le vere origini di Gesù siano misteriose. Sono misteriose non solo nel senso che la ricerca storica non riuscirà a dimostrare le cose in un modo o nell'altro. Sono misteriose in un senso molto più profondo e trascendente. La vera casa di Gesù è quella che condivide con il Padre eterno. La vera origine di Gesù è il suo essere inviato dal Padre. Quando San Giovanni dice che “ognuno andò a casa sua”, nel caso di Gesù significa che andò al Padre. Per il momento lo fa in preghiera e la preghiera permea la sua vita: è sempre alla presenza del Padre. Nel corso della storia tornerà a casa del Padre nel mistero della sua morte, risurrezione e ascensione.

Gesù è sempre più un estraneo che il popolo e i suoi capi cercano di incastrare, per capire se sia o meno il messia, se sia il profeta che doveva venire. Gesù continua semplicemente il suo lavoro, che consiste nell'aprire le porte della sua casa a tutti coloro che diventeranno suoi discepoli. Ci sta preparando per un'ulteriore istruzione sulla presenza della Santissima Trinità nel cuore dei credenti. Se osserviamo i suoi comandamenti e viviamo secondo il suo modo di amare, allora Dio abiterà in noi e con noi. Dio condividerà la sua casa con noi, in modo che dove si trova il Figlio, quando tornerà a casa alla fine della sua giornata, ci saremo anche noi a condividere la gloria che era sua prima della creazione del mondo.

venerdì 4 aprile 2025

Quaresima Settimana 4 Venerdì

Letture: Sapienza 2:1a, 12-22; Salmo 34; Giovanni 7:1-2, 10, 25-30

Dal suo lavoro con i bambini molto piccoli, Melanie Klein ha concluso che l'invidia è un aspetto fondamentale e perenne dell'esperienza umana. Nel suo racconto delle cose, l'invidia diventa il “peccato originale” dell'umanità, una reazione negativa alla fonte del bene quando questa si comporta bene nei miei confronti. È una sorta di risentimento per il fatto che la fonte del bene sia così buona. La generosità del “seno buono” è vissuta come una sorta di potere su di me che mi obbliga a essere grato e mi fa sentire umiliato.

La prima lettura della Messa di oggi è una potente descrizione degli effetti dell'invidia. La persona buona, per il solo fatto di essere buona, viene vissuta come un giudizio sul mio modo di vivere. La Klein parlava dell'invidia che spinge le persone in quella che lei chiamava posizione paranoica-schizoide e vediamo queste cose descritte anche nella prima lettura. La santità dell'altro è vissuta come una minaccia per me, anche quando questa santità si mette al mio servizio. Anche solo vederlo è una difficoltà per noi”. Si può presumere che il giusto non stia esprimendo i giudizi che i malvagi gli attribuiscono, ma la loro paranoia proietta questi giudizi su di lui. I peccati capitali hanno sempre origine in fantasie, pensieri che sorgono dentro di noi senza che li abbiamo messi noi. Di tutti questi pensieri capitali, l'invidia è uno dei più insidiosi.

L'invidia odia vedere gli altri felici, buoni o santi. Vive la felicità, la bontà e la santità degli altri come una sorta di privazione. Tommaso d'Aquino la descrive come una sorta di tristezza che deriva dalla sensazione che i doni di Dio a un'altra persona tolgano in qualche modo il mio valore e la mia eccellenza. In questo senso è una sorta di follia, ma tutti i peccati capitali sono forme di follia. L'invidia mi impedisce di ammirare e rispettare gli altri. Mi sentirò obbligato a sminuirli in qualche modo, ad attribuire loro motivazioni malvagie, a minare la reputazione di bontà che hanno.

L'invidia non sopporta la gratitudine e per questo motivo non sopporta la fonte del bene non solo quando è il bene degli altri, ma anche quando è il bene di me stesso. Essere grati significa riconoscere la propria dipendenza e questo l'invidia non lo sopporta, lo sente come una perdita di sé. Nel peggiore dei casi l'invidia diventa violenta e fisicamente distruttiva. Il senso di umiliazione e di risentimento che l'accompagna la fa sentire giustificata nel cercare di distruggere colui che è buono e che ritiene abbia provocato in sé questo terribile sentimento di denigrazione, di dipendenza e persino di annientamento. Così Gesù diventa vittima dell'invidia, le motivazioni della sua distruzione finale per mano degli uomini seguono esattamente questa analisi dell'invidia e di ciò a cui porta.

“Rinnegare la grazia a un fratello” è un modo per descrivere ciò che nasce dall'invidia. L'invidioso non solo sente che i doni di Dio agli altri sono una minaccia per lui, ma invidia anche lo Spirito Santo che è la fonte della grazia. Vediamo chiaramente che tipo di follia è, non solo risentire dei doni di Dio agli altri come se si trattasse di una sorta di affronto nei miei confronti, ma invidiare la generosità dello Spirito, l'abbondante gentilezza del buon seno di Dio.

L'invidia vorrebbe che tutti fossero ugualmente infelici ed è il più debilitante dei peccati. Cerca di abbassare tutti allo stesso livello di miseria. Dopo aver dato il peggio di sé agli altri, diventa autoconsumante e autodistruttiva. Nei suoi Canterbury Tales, Chaucer afferma che l'invidia è il peccato peggiore: tutti gli altri peccati sono contro una sola virtù, mentre l'invidia è contro tutte le virtù e contro ogni bontà.

Per Tommaso d'Aquino la cura per l'invidia è la carità. Vediamo quanto l'invidia sia un vizio potente: solo la più potente delle virtù può dissolverne il potere. Amare gli altri ci permette di godere, anziché invidiare, i loro successi e le loro benedizioni. I doni di Dio a coloro che amo li vivrò come doni di cui sono partecipe. È essenziale comprendere le radici dell'invidia in noi, capire la sua follia e crescere nella virtù della carità, che sola vince la violenza e la distruzione dell'invidia.

L'asilo è un luogo pieno di bambini dolci e innocenti. Ma è anche il luogo in cui l'invidia fa capolino e comincia a distorcere e distruggere ogni possibilità di comunione e di amicizia. La nostra speranza dipende da Colui che, distrutto dalla nostra invidia, è risorto a vita nuova. Questa nuova vita significa gentilezza e benedizione ancora più abbondanti per il mondo, insieme alla capacità di gioire, anziché risentirsi, dell'amore che va oltre ogni invidia.

giovedì 3 aprile 2025

Quaresima Settimana 4 Giovedi

Letture: Esodo 32:7-14 ; Salmo 106; Giovanni 5:31-47

È strano come la conversazione tra Mosè e Dio in Esodo 32 sia parallela a quella tra il padre prodigo e il fratello maggiore in Luca 15. Nella parabola, che abbiamo ascoltato recentemente, il fratello maggiore rinnega il figlio prodigo, riferendosi a lui. Nella parabola, che abbiamo ascoltato qualche volta di recente, il fratello maggiore rinnega il figlio prodigo, riferendosi a lui quando parla con il padre come “tuo figlio”. Il padre ricorda al figlio maggiore che il prodigo non è solo suo (del padre) figlio, ma è suo (del fratello maggiore) fratello: “Questo tuo fratello era perduto ed è stato ritrovato, era morto ed è tornato in vita”.

Nella prima lettura di oggi è Dio che cerca di disconoscere il popolo prodigo, dicendo a Mosè: “Scendi subito dal tuo popolo che hai fatto uscire dalla terra d'Egitto, perché è diventato depravato”. Mosè prende allora il posto del padre prodigo dicendo a Dio: “Perché la tua ira si accende contro il tuo popolo che hai fatto uscire dalla terra d'Egitto?”. Anche Gesù, nella lettura del Vangelo, rimanda i suoi ascoltatori a questo punto: se non crederanno a ciò che Mosè ha scritto, non ascolteranno ciò che Gesù sta dicendo.

La cosa più affascinante di questa combinazione di letture è che sembra essere il Signore, il Dio di Israele, il primo ad ascoltare Mosè e a credere in lui! Mosè richiama Dio a se stesso, come il figliol prodigo ha bisogno di tornare a se stesso. Mosè ricorda a Dio chi è, come il figliol prodigo aveva bisogno di ricordare chi era. Tu sei Colui, dice Mosè, che ha fatto uscire il tuo popolo con mano potente e opere meravigliose. Non sono il mio popolo, grazie mille, sono il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d'Egitto. Che cosa diranno ora le nazioni riguardo al tuo scopo nel fare questo? Era con un'intenzione malvagia, per ingannare e fuorviare questo popolo e solo, alla fine, distruggerlo?

E se questo non funziona, Mosè lancia un appello più profondo e più antico. Ricorda Abramo, Isacco e Giacobbe, dice a Dio, e le tue promesse a loro. Tu sei il Dio dei nostri padri, non solo il Dio di queste recenti meraviglie sul Mar Rosso, di queste recenti meraviglie in Egitto. Tu sei il Dio che si è impegnato con il tuo popolo da molto tempo, creando un popolo per te fin dai tempi antichi. Hai giurato su queste promesse da te stesso: sarai fedele a te stesso, a chi sei, il Dio dei nostri padri, ora rivelato come il Signore, il Dio di Israele?

Questi drammi del tradimento e della riconciliazione, dell'oblio e del ricordo, sono molto emozionanti. E ci stiamo avvicinando all'atto finale del dramma definitivo. Ora, dice Gesù, ci sono molti testimoni di me. C'è Giovanni Battista e ci sono le opere che ho fatto. C'è la testimonianza del Padre che parla attraverso di loro, ma per accettarla bisogna credere nel Figlio che il Padre ha mandato. C'è la Scrittura, la Parola di Dio, scritta da Mosè ma anche rimasta nel cuore dei credenti. Con tutti questi testimoni, una grande nube da ogni parte, potremmo dire: perché non credete ancora?

Perché hai il collo duro, sentiamo dire da Dio a Mosè nella prima lettura. La risposta di Mosè non è quella di negare il peccato e la dimenticanza del popolo, così come il padre prodigo non nega gli errori del prodigo. La risposta di Mosè è quella di ricordare a Dio chi sono e chi è Dio: sono il tuo popolo che hai chiamato tanto tempo fa, e tu sei il Dio che hai giurato su te stesso che saresti stato il loro Dio e loro il tuo popolo.

Come una vecchia coppia di sposi che ha lottato a lungo e duramente, Dio e il popolo sono inestricabilmente legati l'uno all'altro, sono cresciuti l'uno nell'altro. Questo non significa minimizzare le conseguenze dei loro peccati, che sono grandi. È per esaltare il modo in cui Dio ora giurerà ancora una volta con se stesso di essere impegnato in questa alleanza: La sigillerà ora nel sangue del Figlio, un'alleanza nuova ed eterna, ma antica quanto Abramo.

Così Dio cede e si pente di ciò che intendeva fare. Ancora una volta visita il suo popolo e ancora una volta affronta i suoi peccati e la sua dimenticanza, per ricordarglielo e per restituirlo alla sua famiglia: Lui per sempre il suo Dio, loro - noi! - per sempre il suo popolo.

mercoledì 2 aprile 2025

Quaresima Settimana 4 Mercoledì

Letture: Isaia 49,8-15; Salmo 144; Giovanni 5,17-30

Cristo è il nostro giudice, nominato a questo ufficio dal Padre che lo ha fatto sedere alla sua destra. Che cosa sentiamo nella frase “Cristo è il nostro giudice”? Forse la parola “giudice” spicca e ci fa paura. La cultura contemporanea incoraggia il non giudizio, il che rafforza quella che sembra una naturale ansia di giudicare la nostra vita, il nostro lavoro o le nostre azioni.

Tuttavia, fa parte della meravigliosa buona notizia che Cristo è il nostro giudice. La parola della frase che spiccava per i primi credenti cristiani era la parola “Cristo” e non la parola “giudice”. Che sollievo benedetto e che dono che il giudice della nostra vita, del nostro lavoro e delle nostre azioni sia Gesù Cristo. Nessun altro, alla fine. Naturalmente siamo sempre noi a giudicare gli altri e a essere giudicati da loro. Ma l'importanza di questo Vangelo è che alla fine, fondamentalmente e radicalmente, siamo giudicati da Cristo, e solo da lui.

C'è anche di più, perché per coloro che credono in lui ci sarà un giudizio senza giudizio - “senza essere sottoposti a giudizio passano dalla morte alla vita” (Giovanni 5:24). Coloro che credono in lui conoscono la verità e non c'è bisogno di un ulteriore momento in cui si debba sottolineare il rapporto tra la loro vita e la verità. Vedendo la verità, chi crede vede la distanza tra sé e la verità. Vedono la loro vita, il loro lavoro e le loro azioni alla luce della verità, perfettamente giusta e infinitamente compassionevole, e così sono giudicati senza essere giudicati.

Due grandi rappresentazioni del Giudizio Universale illustrano questo punto. La scena del Giudizio Universale più conosciuta è quella di Michelangelo, nella Cappella Sistina. Un Cristo enorme e pensieroso viene a separare pecore e capre, giusti e ingiusti, e la sua presenza è formidabile e terrificante. Il fatto che questa sia diventata la scena del Giudizio Universale più conosciuta conferma che sappiamo più cose sulla paura che sull'amore.

Un Giudizio Universale meno noto, la cui teologia è molto più solida di quella di Michelangelo, è quello del Beato Angelico nel priorato di San Marco a Firenze. C'è la stessa separazione di pecore e capre, di giusti e ingiusti, ma Cristo non è terrificante. È gentile e bello, e non fa altro che mostrare le sue ferite. Chi crede in lui non ha bisogno di ulteriori valutazioni o criteri per valutare la propria vita, il proprio lavoro e le proprie azioni. Sono giudicati dalla verità del suo sacrificio d'amore e della sua gloriosa risurrezione e alla luce di questa verità possono giudicare se stessi: vedono come stanno le cose.

La persona santa sa che cade sette volte al giorno. Quelli di noi la cui coscienza è diventata meno acuta non sono attrezzati per vedere il vero stato della nostra vita, del nostro lavoro e delle nostre azioni. Allora è necessario un giudizio, abbiamo bisogno di aiuto, che le cose ci vengano indicate e chiarite. Gesù dice più avanti nel Vangelo di San Giovanni: “La parola che ho pronunciato sarà (il vostro) giudice nell'ultimo giorno”, la Parola del Padre che è verità (Giovanni 12:48; 17:17).

martedì 1 aprile 2025

Quaresima Settimana 4 Martedì

Letture: Ezechiele 47:1-9,12; Salmo 45; Giovanni 5:1-3,5-16

C'è una meravigliosa ospitalità nella domanda di Gesù: “Vuoi guarire di nuovo?” Può sembrare un po' strana: sicuramente la risposta è ovvia. Ma Gesù non presume. Oltre alla sua ospitalità, c'è la sua obbedienza nel senso letterale del termine: il suo ascolto, il modo in cui offre uno spazio in cui l'altro può parlare ed essere ascoltato. È il cuore di tutto l'amare, il permettere all'altro di essere, di parlare, di dirci ciò che vuole, di ascoltare ciò che vuole dire e non solo ciò che noi pensiamo che voglia dire.

Questo rende il commento di Gesù, verso la fine, ancora più perplesso: “Assicurati di non peccare più, o ti potrà accadere qualcosa di peggio”. Peggio di cosa, potremmo chiederci. Peggio di essere malati per trentotto anni? Ma sicuramente Gesù stesso ha lottato duramente contro questo legame tra peccato e sofferenza, ha cercato di spezzarlo. Nel capitolo 9 del vangelo di San Giovanni lo troveremo opporre una forte resistenza all'idea, nel caso dell'uomo nato cieco.

“Qualcosa di peggio” può solo significare una paralisi spirituale, peggiore della disabilità fisica di cui soffriva. Ciò avvicina questa storia a quella dell'uomo paralizzato fatto scendere dal tetto a cui Gesù dice “ti sono perdonati i peccati”. Cosa è più difficile, dire che i tuoi peccati sono perdonati o dire alzati e cammina? Perdonare i peccati deve essere la cosa più difficile, la guarigione dell'umanità a quel livello radicale in cui il desiderio è confuso, la comprensione è offuscata e la volontà è distorta.

Ma questa è la guarigione promessa dal mistero pasquale. Tutti coloro che sono entrati nelle acque del battesimo (la piscina delle pecore) sono resi nuovi, nati di nuovo, messi a posto, resi capaci di camminare sulla via di Gesù. Egli non è mai sentimentale e sempre sincero. Il malato viene portato alla luce di questa verità. È guarito, ma deve continuare a camminare nella stessa luce. E così l'uomo diventa un apostolo, dicendo che è stato Gesù a guarirlo.