Un regalo più grande non potevi farmi, uno zampillo d’acqua fresca dopo giorni e giorni in un deserto che sai bene quanto arido. Sarò all’altezza di questo dono, lo prometto a me stessa.
Etty Hillesum

Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutto il mondo!
Caterina da Siena

lunedì 2 giugno 2025

Settima Settimana di Pasqua Martedì

Letture: Atti 20,17-27; Salmo 67; Giovanni 17,1-11

Rivolgendosi agli anziani della Chiesa di Efeso, Paolo riassume semplicemente la sua missione: «rendere testimonianza al Vangelo della grazia di Dio». È compito di ogni discepolo, con le parole e con le azioni, con la preghiera e con la solidarietà, rendere testimonianza al Vangelo della grazia di Dio. È compito particolare di coloro che sono chiamati ad insegnare la fede: genitori e catechisti, sacerdoti e predicatori, insegnanti e accompagnatori spirituali. Essere predicatori è quindi una vocazione meravigliosa, semplicemente testimoniare la grazia di Dio, metterla al centro della nostra vita e farne la nostra unica ossessione.

Un fattore comune a tutte queste vocazioni è la necessità di parlare, di trovare le parole con cui parlare alle persone della grazia di Dio. E da dove vengono queste parole? Intendo parole che trasmettano ciò che vogliamo trasmettere, il Vangelo della grazia di Dio. Potremmo insegnare a un pappagallo a dire “la grazia di Dio, la grazia di Dio, la grazia di Dio”, e questo potrebbe servire a qualcosa. Ma sappiamo che il pappagallo non ha compreso il significato delle parole, né il significato è entrato in lui. A meno che non sia un pappagallo molto intelligente, non sa di cosa sta parlando.

Ma nemmeno noi sappiamo cosa significano le nostre parole quando testimoniamo il Vangelo della grazia di Dio. Sono parole di vita eterna e come possiamo sapere cosa significano? Possiamo sapere più del pappagallo, ma il significato più profondo delle parole che trasmettiamo è un significato divino, rivelato solo dallo Spirito di Dio che intercede per noi con sospiri troppo profondi per essere espressi a parole.

Gesù ne parla nella sua preghiera sacerdotale, di cui leggiamo oggi la prima parte. In essa sentiamo Gesù dire al Padre: «Le parole che mi hai dato, io le ho date a loro». Le nostre parole hanno un significato profondo solo quando hanno origine nella comunione, in una condivisione di vita, in un'amicizia, in una conoscenza reciproca, che dà alle parole un valore reale nell'esperienza umana. George Steiner ha scritto anni fa un libro molto bello su questo argomento, intitolato Real Presences: Is There Anything In What We Say? [Trad. italiana Vere Presenze] La sua tesi è che senza l'apertura al trascendente, non c'è nulla nella maggior parte di ciò che viene detto oggi, nei miliardi di parole che vengono elaborate ogni giorno non c'è nulla di veramente significativo per l'uomo.

Gesù ci insegna la Comunione da cui hanno origine le sue parole: è la sua Comunione con il Padre nello Spirito Santo. Questa condivisione di vita tra le Persone della Santissima Trinità è la fonte di ogni discorso efficace sulla grazia di Dio. Quella Comunione sostiene Gesù nella sua vita, nel suo insegnamento, nella sua morte e nella sua risurrezione, ed è a quella stessa Comunione che egli invita i discepoli. «Tutto ciò che è mio è tuo e tutto ciò che è tuo è mio», dice Gesù al Padre, riferendosi ai discepoli che gli sono stati dati dal Padre e che egli ricondurrà al Padre. Siamo abbracciati dalle Persone della Trinità mentre lo Spirito di Pentecoste viene a sigillare la nostra comunione con Loro, a stabilirla dentro e fuori, nei nostri cuori e nelle nostre relazioni.

Così osiamo parlare della grazia di Dio, anche se è un mistero nascosto da prima dei secoli e anche se le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano devono ancora essere rivelate. Come Maria e Giovanni Battista, come Pietro e Paolo, come i credenti e i predicatori di tutti i secoli, abbiamo il privilegio di essere portatori della parola della grazia di Dio. Paolo dice agli anziani che ha posto davanti a loro «tutto il disegno di Dio» e noi crediamo che esso sia stato condiviso anche con noi. Nell'oscurità della fede e nella tensione della speranza siamo già entrati nella vita eterna. Abbiamo conosciuto Dio come l'unico Dio vero e Gesù Cristo che Egli ha mandato. Questo non è motivo di compiacimento, arroganza o autocompiacimento, perché portare la parola della grazia di Dio significa anche portare la croce di Cristo. E questa conoscenza che sostiene le nostre parole non ci è venuta da alcuna nostra intelligenza o strategia, ma dal dono dello Spirito che ci rende capaci di chiamare Dio «Abba» e di dire «Gesù è il Signore», che ci dona le parole di cui abbiamo bisogno per parlare, anche se in modo esitante, del Vangelo della grazia di Dio.

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