Letture: Siracide 24.1-2, 8-12; Salmo 147; Efesini 1.3-6, 15-18; Giovanni 1.1-18
Quando l'evangelista Giovanni compose il famoso prologo del suo Vangelo, fu influenzato esclusivamente dalle tradizioni ebraiche sulla sapienza o ci fu anche qualche influenza dalla filosofia greca? È una domanda interessante, ma la risposta non ha molta importanza: ciò che conta è la profonda verità che viene insegnata in questo testo straordinario che la Chiesa ci incoraggia a leggere più di una volta durante il periodo natalizio.
Da parte ebraica c'era già la convinzione che il Signore, il Dio di Israele, fosse venuto ad abitare con il suo popolo. Lo vediamo nella prima lettura di oggi: la sapienza che era con Dio venne ad abitare in mezzo al popolo. Egli “piantò la sua tenda in Giacobbe”, l'espressione precisa usata da Giovanni quando parla del Verbo che abita in mezzo a noi, letteralmente piantando la sua tenda in mezzo a noi. Dio lo aveva già fatto condividendo la sua sapienza con il popolo, come dice il Libro del Siracide. Il Libro di Baruc parla in modo simile, vedendo nel dono della legge il modo in cui la sapienza di Dio abita in mezzo al suo popolo, “apparendo sulla terra e vivendo con gli uomini” (Baruc 3,37). La rivelazione del nome divino nel Libro dell'Esodo parlava già di questa presenza di Dio con il suo popolo: “Io sono colui che sono”, ovvero “Io sono colui che è e che sarà con voi” (Esodo 3,14).
La novità del prologo di Giovanni è che la sapienza di Dio si è fatta carne e ha abitato in mezzo a noi in un particolare essere umano, Gesù Cristo. Egli porta a compimento ciò che era stato fatto in precedenza e stabilisce una relazione più profonda e più intima tra Dio e il suo popolo: la legge è stata data attraverso Mosè, ma la grazia e la verità attraverso Gesù Cristo. La sapienza di Dio è stata data attraverso Mosè, ma Dio si dona attraverso Gesù Cristo. È ciò che significa “grazia e verità”, una frase che descrive il carattere di Dio nell'Antico Testamento, “amore costante e fedeltà”, che è semplicemente un'altra versione del nome divino.
Ciò che lo rende ora più intimo è che è il “Figlio unigenito”, che è “più vicino al cuore del Padre”, che è l'incarnazione della Parola o sapienza o legge di Dio. Nelle Scritture l'espressione “figlio unico” è quasi sempre usata in riferimento alla morte del figlio o alla qualità del lutto che accompagna la sua morte. Così, quando Giovanni dice “abbiamo visto la sua gloria di figlio unigenito del Padre”, sta già parlando del mistero pasquale messo in atto da Gesù, della sua sofferenza e morte sulla croce per la salvezza dell'uomo. La nascita di Gesù è quindi una meravigliosa continuazione della relazione già stabilita con il popolo ebraico e allo stesso tempo conferisce a tale relazione una nuova altezza, ampiezza e profondità.
Ad Alessandria e altrove gli scrittori e gli insegnanti ebrei erano in contatto con gli insegnamenti filosofici del mondo antico. Gli appassionati di filosofia troveranno molto da meditare nel prologo del Vangelo di Giovanni. Il più forte è il riferimento all'essere, alla vita e all'intelligenza che struttura la prima parte del prologo: nessuna cosa ha avuto il suo essere se non attraverso di lui, tutto ciò che è nato ha avuto vita in lui, e questa vita era la luce di tutti gli uomini. Eccoli, l'essere, la vita e l'intelligenza.
I filosofi - Platone e Aristotele e altri - erano arrivati a identificare queste qualità come le caratteristiche essenziali del vero essere, di ciò che è veramente. La tradizione ebraica vi aggiunge la “grazia”, la convinzione che la partecipazione a queste qualità da parte delle creature sia un dono di Dio creatore. Questo dono, già visto nella nostra creazione da parte di Dio, ha uno scopo ancora più straordinario perché, come ci dice Paolo nella seconda lettura, Dio ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo per vivere nell'amore, per essere adottati come figli e figlie di Colui che ci crea.
Giovanni Battista è descritto come “solo un testimone”: L'evangelista si preoccupa che non ci siano incertezze al riguardo: “non era la luce”, dice. E anche noi siamo “solo testimoni”. Ma pensate a cosa significa essere testimoni di queste meravigliose verità. Significa che abbiamo ricevuto quello che Paolo chiama lo spirito di sapienza e la percezione di ciò che è rivelato, vedendo la speranza a cui siamo ora chiamati, crescendo costantemente nella piena conoscenza del Dio del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre della gloria.
Nessun commento:
Posta un commento