Letture: Ebrei 12:1-4; Salmo 22; Marco 5:21-43
'Talitha koum”, ‘bambina, alzati’. È uno dei luoghi del Nuovo Testamento in cui troviamo parole aramaiche. Ci sono molti luoghi di questo tipo, soprattutto nei vangeli, e in particolare nel vangelo di Marco. Si ritiene che l'aramaico fosse la lingua madre di Gesù. È una lingua usata ancora oggi, per esempio dalle comunità cristiane che lottano per la sopravvivenza in Iraq.
Possiamo fare delle ipotesi sul perché queste parole e frasi siano presenti nel Nuovo Testamento. Non sembra esserci consenso tra gli studiosi sul perché siano presenti e perché appaiano proprio nei luoghi in cui le troviamo. Le tre occorrenze più importanti di parole aramaiche nel Vangelo di Marco sembrano essere le seguenti: il passo che leggiamo oggi in cui Gesù dice “talitha koum” alla bambina, il passo di Marco 14 che racconta l'agonia di Gesù nel giardino e in cui egli prega il Padre come “Abba”, e le parole pronunciate da Gesù dalla croce, riportate da Marco, “Eloi, eloi, lama sabachthani”.
L'elemento comune a tutti e tre è la morte. In tutti e tre i momenti Gesù si confronta con la morte. Sono tutti momenti in cui la fede o la fiducia in Dio sono messe alla prova più estrema, quando Gesù si confronta con la morte, il nemico finale e definitivo, l'ultima arma nell'arsenale del regno di Satana. E la morte sembra la vittoria di quel regno. Dopo aver dimostrato di avere potere sulle malattie e sui demoni, sul peccato e sulle forze della natura, che dire della morte? Cosa può fare il Messia di fronte alla morte? Egli proclama che il regno di Dio è vicino, un regno che riguarda la vita, la pienezza della vita, la vita eterna. Come se la caverà nella battaglia con la morte? Il suo regno sarà in grado di affrontarla?
Nelle scorse settimane abbiamo letto la Lettera agli Ebrei e stamattina abbiamo sentito parlare della nuvola di testimoni che testimoniano la fede, riuniti intorno a Gesù che è il “capo e perfezionatore” della nostra fede. Il principale tra questi testimoni è Abramo, che ha creduto anche di fronte alla morte. Egli credette che Dio era in grado di risuscitare persino i morti e così gli fu restituito Isacco, salvato dalle fauci della morte, come simbolo del potere di Dio di risuscitare i morti.
Con Gesù inizia davvero questa resurrezione dei morti. Possiamo immaginare che le parole aramaiche sopravvivano perché questi incontri con la morte sono i più intensi, dal punto di vista emotivo, del ministero di Gesù. Sappiamo dalla sua reazione alla morte di Lazzaro quanto fosse profondamente colpito dal potere della morte. È facile capire che il Getsemani e il Golgota sono i momenti più emozionanti per lui personalmente, i momenti di lotta più profonda: rimarrà fedele anche in questa oscurità sempre più profonda? Possiamo immaginare che fosse arrabbiato per la reazione della folla quando arrivò alla casa di Giairo.
C'è un fattore comune, dunque, in quelli che sembrano gli usi più significativi di parole aramaiche nel Vangelo di Marco: sono registrati quando Cristo si scontra con la morte. Sono usate in momenti di grande emozione. Come se anche per i testimoni che registrano questi incontri l'esperienza fosse stata profondamente emotiva, tanto che le parole e le frasi vere e proprie, nella lingua madre del Signore, erano impresse nei loro cuori, nelle loro menti e nei loro ricordi.
È una speculazione, una meditazione, ma è almeno interessante. E forse molto più che interessante, perché solleva la domanda chiave: come se la cava la fede di fronte alla morte? La mia fede? La vostra fede? La fedeltà di Gesù? La nostra fiducia in lui? Continuiamo allora a credere, a sperare, che con Dio tutto è possibile?
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