Letture: Atti 5,34-42; Salmo 27; Giovanni 6,1-15
Iniziamo la lettura del capitolo 6 del Vangelo di San Giovanni, che racconta il segno della moltiplicazione dei pani, Gesù che cammina sulle acque, la folla che lo segue dall'altra parte e il grande discorso sul pane della vita che serve da interpretazione del segno. Molti degli incontri dopo la risurrezione hanno forti connotazioni eucaristiche, in modo più esplicito quello di Emmaus, dove i discepoli lo riconoscono nello spezzare il pane. Nella vita della Chiesa, dove il Signore risorto continua ad essere presente con il suo popolo, è soprattutto nell'Eucaristia che noi siamo con Lui e Lui è con noi.
Così Gesù sfama una grande folla con cinque pani e due pesci. Vedendo che stavano per venire a prenderlo per farlo loro re, Gesù si ritirò da solo sul monte. Il timore è che volessero imprigionarlo come loro re, imprigionarlo nella comprensione e nell'esercizio della regalità che le loro tradizioni avevano insegnato loro ad aspettarsi. Egli è il Messia, dicono, il Profeta come Mosè. È vero che egli deve essere sacerdote, profeta e re, ma alle sue condizioni, alle condizioni stabilite dal Padre, e non alle loro condizioni, che lo imprigionerebbero nella loro comprensione e nelle loro aspettative.
Gesù fugge perché la sua ora non è ancora giunta. C'è ancora molto da fare prima che giunga l'ora. La maggior parte di questo lavoro è pedagogico: egli deve insegnare al popolo, spiegando loro più a fondo il senso della sua regalità. Nell'ora della sua passione viene letteralmente preso con la forza e crocifisso, ironicamente, come loro re. Abbiamo sentito di nuovo tutto questo il Venerdì Santo, nel dibattito con Ponzio Pilato sulla regalità di Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?», «Il mio regno non è di questo mondo», «Allora sei un re?», «Tu lo dici», «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei».
Nel mezzo di quel dialogo sulla sua regalità spiccano due frasi, «momenti decisivi» in un dramma fatto di molti momenti decisivi. «Non abbiamo altro re che Cesare», dicono le autorità ebraiche, nel pieno del processo contro Gesù. Rinunciano di fatto alla loro fede nel Signore, il Dio d'Israele, che era stato il loro unico re da tempo immemorabile.
Ironia della sorte, anche Gesù viene crocifisso come loro re, un'accusa che vuole schernirlo ma che in realtà afferma la verità di cui egli era venuto a testimoniare. I capi ebrei non la trovano divertente: «Avresti dovuto scrivere: “Quest'uomo dice: Io sono il re dei Giudei”». E un'altra frase salta all'occhio: «Quello che ho scritto, l'ho scritto». Così Gesù è presentato davanti a tutto il mondo e per sempre come il Re dei Giudei, il Messia promesso, che è anche il profeta tanto atteso e il sacerdote che offre l'unico sacrificio accettabile di amore e obbedienza.
Dobbiamo essere continuamente messi in guardia dal pericolo dell'idolatria, anche se ci professiamo seguaci di Cristo. È molto probabile che, volendo Gesù come nostro re, lo imprigioniamo, lo mettiamo al suo posto come simbolo dei nostri interessi. Sotto pressione e nel fervore delle lotte quotidiane, potremmo renderci conto che il nostro re, in realtà, e contrariamente a ciò che professiamo con le labbra, è uno degli «Cesari» che siamo tentati di adorare: qualche piacere, potere o accordo che è il vero dio della nostra vita.
Dobbiamo cercare di vivere nel regno della verità: questa è la moneta e la ricchezza del regno di Gesù. Egli è venuto per rendere testimonianza alla verità e nella prima parte del discorso che segue parla della saggezza e della comprensione con cui, come nostro “pane di vita”, ci nutre. Gamaliele, come è noto, assume una posizione illuminata e liberale: se questo movimento viene da Dio, continuerà; se viene dagli uomini, si esaurirà da sé. Gli apostoli e la Chiesa continuano a parlare nel nome del Signore Gesù e la loro testimonianza dimostra che questo movimento viene davvero da Dio. Non abbiamo altro re che Gesù, come ci hanno aiutato a capire, loro malgrado, i capi dei Giudei e Ponzio Pilato.
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